"I Principi della nuova psichiatria"
Professor Andreoli, Lei è autore del libro I principi della nuova psichiatria edito da Rizzoli: oggi è possibile curare la mente?
Nel 1959 quando per la prima volta sono entrato in un manicomio, la psichiatria aveva soltanto il compito di custodire la follia. Il folle era allora definito come “colui che è pericoloso a sé o agli altri oppure è di pubblico scandalo”.
Dunque folle era sinonimo di pericoloso. Cesare Lombroso definiva il folle un de-generato: uno che non era evoluto alla condizione umana, ma si era fermato prima nel percorso evolutivo. In sostanza era un quasi-uomo e la sua situazione fisica (in particolare cerebrale) era fissata stabilmente e quindi non poteva che essere folle per sempre. Il manicomio era una cittadella dei quasi-uomini e vi dovevano stare o comunque essere controllati) a vita.
Come vede non si afferma nemmeno il principio della cura, ma della contenzione. Questi sono i principi della Legge del 1904 che prevede nel Regno d’Italia i manicomi.
Nei decenni successivi è entrato il criterio della terapia, ma mancavano le conoscenze base del cervello che rimane l’organo di riferimento della follia e quindi in maniera molto empirica si sono introdotte delle terapie come nel 1938 l’elettroshock e tra il 1953 e il 1961 gli psicofarmaci: 1953, la clorpromazina, un tranquillante maggiore, 1957, l’imipramina, un antidepressivo, 1961, le benzodiazepine, i cosiddetti anti-ansia. Questi strumenti agivano non sulle malattie ma su alcuni sintomi: sedare, aumentare il tomo dell’umore, contenere l’angoscia, ma non era nemmeno possibile indicare precisamente le cause delle malattie.
Questa premessa è necessaria per mostrare, per differenza, la condizione di oggi in cui possiamo affermare che tutte le malattie della mente sono curabili, anche se la ricerca di strumenti più adeguati e specifici è in corso, ma non è più affidata al caso bensì alla ricerca scientifica. Possiamo dire di essere veramente entrati dentro la psichiatria scientifica.. Siamo passati da una psichiatria empirica ad una scientifica, grazie a grandi scoperte che permettono di usare questo termine. E certamente non si può più parlare del folle come di un quasi uomo, ma di un uomo vero nel senso che la follia è una manifestazione umana, e talora straordinariamente umana.
Lei stesso ha affermato: “non potevo che costruire la mia psichiatria”. In che modo è pervenuto alla Sua psichiatria?
Nella fase pre-scientifica dominava una confusione poiché ogni affermazione e ogni presa di posizione erano empiriche, non fondate secondo i criteri della metodologia rigorosa della scienza. Era nata persino una psichiatria democratica, un movimento che negava addirittura la follia del singolo e parlava di malattia della società; altri ancora legavano la follia a qualche molecola presente nel cervello e anomala (la follia delle molecole).
In questo clima non era certo possibile almeno per me appartenere a nessuno di questi movimenti, poiché io ho sempre creduto che solo la scienza poteva fondare la psichiatria e, avendo io cominciato studiando il cervello nei laboratori per ben otto anni, avevo iniziato a costruire dei miei riferimenti scientifici nel considerare la sofferenza dei malati di mente.
Devo a questo punto chiarire il significato di scienza: la psichiatria è parte delle Sciences de l’Homme (specificazione che spetta a Jean Piaget nel 1955) intendendo con questo termine le scienze che considerano l’uomo tutto intero. Si diversificano dalle scienze del particolare, come per esempio la fisica delle particelle dell’atomo. Nel nostro caso l’”oggetto” della psichiatra scientifica è l’uomo tutto intero e dunque insieme di biologia, di psiche e di appartenenza alla comunità e dunque l’uomo relazionale.
Quali sono i principi fondativi della nuova psichiatria?
Il primo è che ogni comportamento, normale o patologico, dipende da tre fattori: un fattore biologico, che significa dai nostri geni e dal cervello, dalla personalità (dimensione psichica) che si lega alle esperienze e a come le abbiamo vissute. La personalità non è un dato fisso ma si costruisce progressivamente nella nostra esistenza in base alle esperienze che la caratterizzano. Il terzo fattore è dato dall’ambiente, per cui il nostro comportamento dipende anche da dove ci troviamo a vivere: è la dimensione sociale. Ogni valutazione deve tenere conto di tutti e tre i fattori e oggi disponiamo di mezzi per non solo riconoscerli ma misurarli.
Da questo principio ne deriva un altro importantissimo: non è più possibile mettere in antagonismo le psicoterapie dalle terapie farmacologiche e dagli interventi sui luoghi di vita (sociali) poiché tutti contribuiscono, sia pure con un contributo differente da malattia a malattia. La co-presenza pone come fondamento la necessità di combinare questi tre aspetti.
Da ciò deriva ancora che lo psichiatra è frammentato, nel senso che egli deve, per fare diagnosi e stabilire la terapia appropriata, servirsi di competenze specifiche, che a lui mancano. La malattia di mente oggi dispone di diversi operatori, con proprie competenze, ma che hanno bisogno di essere coordinate.
Lo psichiatra ha il ruolo del direttore d’orchestra il quale non sa suonare il violino, ma è consapevole di quando debba entrare nella sonata per realizzare lo spartito (la cura). E ogni orchestrale deve sapersi armonizzare con gli altri: il violino con la tromba e insieme con il contrabbasso… Non antinomie ma armonia guidata dal referente che per il malato è lo psichiatra.
Un punto cruciale è capire il perché oggi discipline che erano un tempo divise debbano mettersi insieme in modo coordinato: ciò deriva dal principio della circolarità. Significa che esiste un rapporto diretto tra corpo e psiche e tra psiche e capacità di relazione. Una persona depressa ammala più facilmente sul piano del corpo di chi invece è sereno e gioioso, e all’opposto, se uno sta bene psichicamente vive meglio in società e se è così avrà beneficio psichico e somatico. Ecco la circolarità per cui veramente l’uomo è una unità.
Lei ha contribuito alla definizione di cervello plastico, cosa significa?
Fino a 15 anni fa si pensava che il cervello fosse, poco dopo la nascita, definitivamente strutturato e dunque avesse una propria organizzazione fissata, ora sappiamo che il cervello è diviso in due parti: una determinata e dunque secondo l’idea antica, ma ne esiste una che invece è plastica, capace di modificarsi sulla base delle esperienze. Dunque esiste un cervello che si modifica, genera strutture nel corso della esistenza. Il cervello plastico si trova nei lobi frontali e in parte in quelli temporo-parietali.
A questa grande scoperta si è aggiunta la conoscenza che il campo della psichiatria è quello del cervello plastico, mentre quello della neurologia è il cervello determinato. Ciò significa che il cervello della malattia mentale è un cervello che si può modificare con le esperienze. E la terapia è un’esperienza.
Su questi nuovi principi oggi parliamo di possibilità di scolpire le strutture cerebrali e di cambiare quelle che sono state organizzate in maniera patologica sulla base di esperienze inadatte. È questa la grande rivoluzione e il mutamento della visione della psichiatria come disciplina clinica che tende alla cura.
Che rapporto intercorre tra normalità e follia?
Tra normalità e follia non vi è un salto qualitativo ma una continuità e dunque non esistono due compartimenti stagni e incomunicabili come si credeva un tempo. Guardiamo la ossessività: se uno controlla la chiusura della porta quando esce di casa, due o tre volte, nel dubbio di averla veramente chiusa e magari chiusa bene, il comportamento è parte ancora della norma, se compie il controllo 20 volte è chiaramente da curare.
C’è da tenere conto poi della società in cui si vive. Consideri che fino al 1991 la omosessualità era considerata una malattia della sessualità, da quella data è stata cancellata dall’elenco delle malattie che l’Organizzazione Mondiale della Sanità rivede ogni quattro anni. Ora noi la definiamo “una caratteristica delle personalità” e dunque non fa più parte della psichiatria, mentre in passato era accolta nei manicomi.
Il fattore ambientale è importante per la espressione della patologia mentale e ciò serve a capire come uno stesso soggetto si possa comportare normalmente sul lavoro e follemente a casa, o viceversa. Analogamente spiega come l’assunzione di alcool o di allucinogeni modifichi le nostre azioni. Questo relativismo non impedisce la definizione di precise categorie psicopatologiche come la schizofrenia (presente nel due per cento della popolazione) o del Disturbo depressivo (presente nel quattordici per cento).
Ho formulato l’ipotesi scientifica secondo cui tutto parte dalla frustrazione, dalla difficoltà che un soggetto trova a inserirsi nell’ambiente familiare o sociale e dunque ad essere accettato. Nel mio libro I principi della nuova psichiatria spiego come da questo punto si sviluppano comportamenti folli. Tenga sempre presente che il riferimento è l’uomo, non un organo, una funzione isolata che possono essere considerate con maggiore precisione, ma non esprimere il comportamento umano.
La relazione col paziente e i suoi vissuti è fondamentale nella cura dei disturbi mentali.
La relazione si caratterizza per l’empatia che si avverte nell’incontro tra due individui. Non è necessario per un incontro di affari, me essenziale per una attività terapeutica. Gli psicoanalisti parlavo di transfert che sta a indicare il passaggio di energia positiva e legante tra terapeuta e paziente, ma è importante anche nella visita psichiatrica. Se manca l’empatia e dunque la fiducia in quell’incontro, non si produce attività clinica che deve tendere alla analisi profonda del soggetto.
Le psicoterapia si fondano sulla parola, sul colloquio, ma occorre che la parola si usi nella relazione. Per lo psichiatra significa avere passione per la propria professione e grande interesse per il malato.
Come possiamo prenderci cura della nostra mente?
Valutando il livello di frustrazioni e costruendo un bilancio giornaliero tra gratificazioni e frustrazioni. Se la nostra vita è soltanto frustrante, le frustrazioni si accumulano e si trasformano in violenza, verso gli altri o verso noi stessi: in quest’ultimo caso con senso di colpa, malinconia e disturbo depressivo .
L’esistenza è un continuo adeguarsi al mondo. Il rapporto io-mondo è la misura del essere e occorre produca gratificazione, che significa avere un senso, poter esprimere un piccolo protagonismo. La seconda misura per prenderci cura della mente sta nel monitorare la capacità di frenare le nostre pulsioni (i nostri istinti), perché questo significa civiltà, capacità di dominare le tendenze personali.
Viviamo in una società dominata da comportamenti irrazionali, come il terrorismo o la violenza sessuale. Quali dinamiche spingono i singoli verso tali follie?
L’uomo del tempo presente sta regredendo a livelli di civiltà minori. La civiltà sta nella capacità di dominare le nostre pulsioni (alimentari, sessuali, di potere) e pertanto se non funzionano più i freni inibitori, le pulsioni si liberano e portano a comportamenti di sopraffazione e violenza. Il controllo è il fondamento della civiltà e lo abbiamo costruito, almeno per la civiltà occidentale, a fatica e in oltre due millenni. Si tratta di apprendimento che può scomparire in una generazione: se non sappiamo trasferire con l’educazione i livelli raggiunti, si ritorna alla dimensione pulsionale, quella animale in senso stretto, il selvaggio, all’occhio per occhio e dente per dente.
La civiltà non è legata ai geni, ma appunto alla trasmissione da generazione a generazione. La perdita di autorità dei padri, la falsità delle istituzioni, il denaro posto a definizione del valore di ciascun uomo sono elementi di degenerazione sociale. Si tratta della modificazione di uno dei fattori che influiscono sul comportamento e dunque anche il livello di civiltà entra nel tema della psichiatria che, lo ricordo ancora, riguarda l’uomo tutto intero, incluso il dove egli vive e entro quale civiltà.