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Andreoli, abbraccio alla pazzia "Così bruciai le camicie di forza"

L'INTERVISTA Lo psichiatra racconta la realtà dei manicomi della nostra città prima e dopo la normativa del 1978

Fonte L'Arena

13 Maggio 2018 | Filippo Brunetto

"Da sempre contrario ai sistemi di contenzione: a Marzana feci un falò" "Ho condiviso la Basaglia ma questa poi non ha fornito nuovi strumenti".
Vittorino Andreoli, psichiatra e neurologo veronese di fama mondiale, entrò giovanissimo nel 1969 all’istituto San Giacomo alla Tomba di Verona per studiare le malattie della mente. Laureato in Medicina all'Università di Padova, ha lavorato in Inghilterra" a Cambridge nel Department of Biochemistry e negli Stati Uniti: prima al Cornell Medical College di NewYork e poi alla Harvard University. La sua bibliografia è sterminata.
Ha fatto le perizie psichiatriche a protagonisti di delitti passati alla storia. Al San Giacomo sviluppò l‘atelier di pittura, esperienza dalla quale emerse il genio di Carlo Zinelli. E’ stato testimone a Verona dell'evoluzione della psichiatria nel Novecento: dal San Giacomo a Marzana, fino al Dipartimento di Psichiatria di Soave, dove è stato direttore. Oggi sono passati 40 anni dalla legge Basaglia che chiuse i manicomi in Italia.

Professor Andreoli, il 13 maggio del 1978 viene approvata la riforma Basaglia. Cosa cambia a Verona?
Non ci fu un problema grave.
Bisogna ricordare che nel 1969 il San Giacomo alla Tomba, il vecchio sanatorio dell’Ottocento, viene abbandonato perché era stato costruito il nuovo ospedale di Marzana: nel 1978 Verona ha l'ultimo manicomio costruito in Italia. Una struttura che dal punto di vista architettonico era un capolavoro, costato sei miliardi e mezzo di lire: fu progettato dall’architetto Carlo Scarpa e portato a termine da Daniele Calabi. La legge quindi chiude il più bel manicomio d'Italia con campi da tennis, un grande atelier, negozietti per produrre degli oggetti e venderli e spazi per ricevere i parenti.

Fu un evento traumatico?
Non direi. A Verona avevano superato la questione "ambientale" ma un manicomio non può essere ricondotto solo ad un luogo, occorre descrivere il sistema di trattamento.
Verona era un bellissimo posto ma con vecchie modalità terapeutiche. Comunque, rispetto all'antica legge del 1904 si respirava già un’altra aria. Nel 1968 una normativa già aggregò gli ospedali psichiatrici al ministero della Sanità, mentre prima erano del ministero degli Interni, perché allora il "matto" era definito colui che era pericoloso per se e gli altri e di pubblico scandalo. Al San Giacomo i ricoveri infatti erano effettuati in modo coatto. Nel 1968 viene introdotto il ricovero volontario. Era quindi già in corso una riforma.

Quale fu l'effetto della legge?
Nel 1978 avevano già preparato molte dimissioni e quindi non abbiamo avuto grandi problemi. Il manicomio era provinciale, ma poi erano nati reparti di diagnosi e cura in Borgo Trento, a Borgo Roma, a Soave, a Legnago. Ci fu una divisione territoriale. Rimasero pochi casi, chi non aveva trovato una sistemazione fuori dalla struttura.

Con le famiglie? L'Arena 13 Maggio 2018
Non fu traumatico. Quando ero direttore a Soave, chiusi a Lonigo l’ospedale psichiatrico femminile trasformando tutte le ospiti da presenze coatte a volontarie. La trasformazione fu quindi anche burocratica. A Marzana c'erano 850-900 pazienti quando al San Giacomo erano 1.200. Alla fine rimasero 150 lungodegenti, vecchi o senza famiglia.

Si è sempre molto parlato dei sistemi di contenzione nei manicomi. Nel luglio del 1970 L’Espresso pubblicò un'immagine scattata dal fotografo Mauro Vallinotto che ritraeva una bambina nuda, legata mani e piedi alle sbarre del letto. Fu uno choc in Italia.
Io non ho mai usato i sistemi di contenzione. Ordinai ai miei collaboratori di utilizzare tali sistemi solo ed esclusivamente dopo la mia autorizzazione. Dovevano chiamarmi. Creai invece un centro di psicologia che fu molto frequentato. Lo stesso Luigi Zoia, che è stato presidente internazionale della Società di psicanalisi junghiana, veniva da Zurigo per fare l‘attività clinica a Marzana.

Nel 1974 lei fece un falò in clinica bruciando tutti i sistemi di contenzione.
Nel mio reparto a Marzana c'erano 120 persone. Accadde che un medico legò un malato senza dirmelo. Appena saputo denunciai il fatto alla Procura e poi feci raccogliere alle suore tutte le camicie di forza e lacci e a mezzogiorno bruciai tutto. Ma proprio tutto.
Racconto un episodio...

Prego…
Un giorno mi chiamarono perché un paziente, che era stato chiuso in camera, stava spaccando ogni cosa. Nessuno osava entrare, per timore. Mi feci aprire la porta, nonostante un infermiere mi dicesse di non farlo, ed entrai. La stanza era devastata ma cominciai a spaccare tutto pure io. L’ospite, sorpreso, mi guardò e si calmò. L’ho preso sottobraccio e portato nel mio studio. Confesso, mi fermai perché a spaccare tutto ci stavo un po'prendendo gusto.

Ad oggi qual'è il suo giudizio sulla Basaqlia?
L’ho semplicemente applicata. Il mio giudizio è positivo, senza dubbio: la norma ci ha insegnato che si può gestire la follia senza manicomi, questo è il vero punto. Ha chiuso strutture a mio avviso non necessarie. Però non ha aperto quello che occorreva in alternativa come luoghi e attività terapeutiche.

Dice che i manicomi non servono, ma servono molte altre cose.
Si parlava di psichiatria "democratica", ma cosa voleva dire? Io credo invece che si debba passare a una psichiatria scientifica, ma non ci siamo ancora arrivati. Così com’è adesso, la psichiatria non funziona. Oggi c’è il turn over: la media di un ricovero è di 12-13 giorni. Cosa si può capire di un paziente? Nulla. E servono residenze psichiatriche.

Resistono vecchi sistemi?
Ho partecipato recentemente ad un convegno sulla contenzione. Oggi in Italia credo che siano 400 i centri di diagnosi e cura, il numero preciso mi sfugge, ma solo 22 strutture non usano tali sistemi. Basaglia parlava di libertà ma secondo voi la psichiatria si può definire “libera” se quasi tutti legano i malati?

Le famiglie come stanno?
Le famiglie sono in difficoltà, caricate di un malato che non sanno gestire, che fa anche paura. Eppure, la malattia non è la peste. C'è ancora una cultura da cambiare. La Basaglia è partita bene ma poi non ha aperto quello che serviva e serve. Oggi vedo vecchi pazienti che vagano per la città.
E un vantaggio? Non lo so.

Lei ha sempre sostenuto le necessità di una psichiatria di natura pubblica.
Vedo prendere piede una psichiatria privata, ma io penso che questa debba essere pubblica. Le famiglie hanno bisogno di luoghi per curare casi acuti, strutture per degenze e aiuti per cure che costano. Oggi ai servizi di igiene mentale una visita dura 9-10 minuti. È possibile capire quel malato in così poco tempo quando lui stesso poi non vuole raccontarsi. Oggi lo stesso Basaglia direbbe che la psichiatria non funziona

Le patologie però non mancano.I dati nazionali parlano di sofferenze psichiatriche e psicologiche. La follia oggi come cambia?
Al San Giacomo la depressione colpiva il 5% dei pazienti, oggi siamo al 14%; la mania era al 6-7% e i valori restano simili; la schizofrenia è passata da 5 % al 2%. Allora c'erano tanti oligofrenici, un ritardo spesso allora causato dal forcipe usato durante il parto.

Il problema oggi sono forse le nuove dipendenze da tecnologia? Follia da web?
Vero, è il grande problema. Una volta c'era l‘alcolismo, oggi ci sono le dipendenze da video. Di sera non si parla più, cambia tutto. Il comportamento di una persona dipende dalla nostra biologia e genetica, dal cervello ma anche dalla personalità in continuo cambiamento con le esperienze e l'ambiente esterno. Stiamo perdendo tutti la memoria numerica e semantica, il significato delle parole. Ci sono difficoltà nel linguaggio. Internet è un mondo che propone tutto, dal gioco al sesso. Poi si cancella ogni cosa con un clic. Ma la realtà è diversa. I ragazzi diventano incapaci di vivere in un mondo reale. E’ un dramma. Una dissociazione dei tempi.

Cosa ricorda invece del San Giacomo?
Era una cittadella nella città. Per curarsi non si andava in un ospedale esterno. Si faceva il pane. C'erano le mura e scattavano gli allarmi quando un matto scappava. Il contatto tra la città dei sani e quella dei matti avveniva solo al Carnevale e al Corpus Domini. Il direttore decideva chi poteva fare la comunione e chi poteva partecipare alle feste. Io vedo ancora i malati, quelle sofferenze e quegli abbandoni. Quando una famiglia metteva un paziente al San Giacomo poi non si faceva più vedere. La malattia faceva paura.

Ci fu però l’esperienza dell'atelier d'arte, un'esperienza unica al mondo.
Verona è stata all'avanguardia. Ai miei pazienti ho voluto sempre bene. C’è una parte di pazzia un po' in tutti noi.
All'epoca si pensava che un "matto" non poteva diventare sano e uno sano non poteva diventare "matto". Oggi sappiamo che non è così. Non ci sono immunità alla follia.