Internet ci ucciderà
«Sarà una morte sociale, psicologica, perderemo la nostra identità e diventeremo spettri», spiega lo studioso. Il futuro è senza speranza.
14 Apr 2018 | FRANCESCO GIRONI
TUTTI ALL’AMO DEL WEB Vittorino Andreoli, 78 anni il 19 aprile, parla, nel suo ultimo libro, di una fuga per riappropriarsi dei propri spazi: «Una metafora della vita nella Rete che ci “cattura” con l’amo di mondi irreali», come riassume la foto sopra.
Quando si parla con uno psichiatra si è pronti ad ascoltare commenti forti e spiazzanti. Ma se lo psichiatra in questione è Vittorino Andreoli, non un qualsiasi studioso della mente ma l’uomo che è entrato nel cervello dei peggiori criminali, dagli stragisti di piazza delle Loggia a Brescia fino a Pietro Maso e Donato Bilancia, e che ha lavorato nelle università più prestigiose, Cambridge e Harvard, bisogna essere addirittura pronti ad appuntare sul taccuino frasi del tipo “saremo tutti psicologicamente morti”, “siamo degli spettri”, “imbroglio dell’esistenza”. Che andrebbero scritte con lettere maiuscole perché, quando le pronuncia, il professor Andreoli si infervora, sbotta, tuona. E poi, nello snocciolare le sue argomentazioni, sorride: «Il tono dipende solo dalla passione che metto». Si era iniziato con il parlare del suo ultimo libro, Il silenzio delle pietre (Rizzoli, 19 euro), un romanzo. «Il protagonista vive in una metropoli, in una casa patrizia circondato da persone che cercano di guadagnarsi uno spazio, finendo per appropriarsi del suo spazio. Lui è sempre più solo e il risultato è una vita frustrata, con relazioni difficili e una grande sensazione di insicurezza: temi centrali nella nostra società», racconta Andreoli.
Lei spiega di aver proiettato il racconto nel 2028 per portare all’estremo situazioni della vita attuale. È così che il protagonista, come detto, vedrà i suoi spazi occupati abusivamente. Scorrendo le cronache di queste settimane, la storia sembra voler raccontare la nostra vita “occupata” dai social network, Facebook in testa... «È una metafora, vero. La metropoli descritta è come Internet, piena di rumore e di cose che non esistono: lascia soli, anche se ci vivono milioni di persone».
In effetti, viviamo connessi alla Rete. Siamo connessi, ma soli? Chamath Palihapitiya, ex vicepresidente di Facebook, è arrivato dire che i social sono «strumenti che stanno distruggendo il tessuto funzionale della società». È così? «Ne La vita digitale (Bur, 7 euro) scrivevo che questo strumento avrebbe cambiato la nostra mente, riempiendola di ciò che non c’è. È un mondo surrogato che sostituisce un mondo vero. Anziché risolvere i problemi degli individui, crea una dimensione sociale virtuale: è un po’ come se, invitando un amico a cena, volessimo convincerlo che sarebbe meglio digiunare. Ci stiamo creando un doppio, tra il concreto e il virtuale, nel quale tutti i problemi sono risolti in una società che non c’è».
Lei sostiene che «i social sono un bisogno di esistere perché siamo morti». Considerando che dalle ultime ricerche su 59,3 milioni di italiani, 34 milioni sono attivi sui social, il quadro è disarmante...
«Dirò di più, nel 2028 saremo tutti morti. Bisogna però spiegare. La parola “morte” ha tre significati: c’è la morte fisica, quella psicologica con la morte della propria personalità e, infine, la morte sociale. Ecco, nel 2028 non saremo morti fisicamente ma certo saremo morti dal punto di vista sociale e psicologico perché la nostra personalità non sarà quella reale, ma quella che disegneremo sui social network. Che trasformeranno tutti noi in spettri». Con i social network quindi modifichiamo le nostre identità “a uso e consumo” dei “mi piace”? «Certo, riprogettiamo la nostra identità. Ma il termine corretto è “perdiamo”». In concreto che cosa significa? «Provi a pensare alla famiglia di oggi: padre, madre, figlio, nonno. C’è una crisi nella coppia? Per cercare una soluzione non ci si rivolge più alla terapia della famiglia, ma ognuno si immerge nel suo telefonino. Padre e figlio non comunicano? Stessa soluzione. Chi veramente soffre è il povero nonno, l’unico non connesso. Oramai siamo carne e telefonino: la memoria non è più nella testa, ma nello smartphone».
Nel 2013 gli inglesi hanno coniato un nuovo termine, Fomo ( fear of missing out, paura di essere tagliato fuori), per spiegare l’ansia di chi resta escluso da questo mondo. Qual è il suo fascino? «Racconta ciò che pare importante, ma che in realtà non è reale. Sembriamo tanti Peter Pan che vanno nell’Isola che non c’è: il social network fa sembrare mondo ciò che non è mondo. È un imbroglio esistenziale». E alla fine siamo tutti inglobati? «Quella da social network è una dipendenza di cui non ci si accorge perché è gradevole. Perché alla fine la propria casa è meno gradevole di quella virtuale. Nel mondo virtuale non si racconta di quando si ha il mal di pancia, ma solo di momenti felici: si vive là dentro e non si pensa più. Perché il mondo digitale è solo presente, mentre noi abbiamo bisogno del futuro, del dubbio, dell’attesa».
Ci lascia senza speranze. Siamo sicuri che, proprio nel 2028, quando si svolge la storia del romanzo, parlando della dipendenza da social non si dirà: «Ma quella era una moda del 2018»? «Non demonizzo il social network, purché la digital life non distrugga la human life. Perché alla fine se si rompe il telefono non si vive più: a funzionare non è il cervello ma la connessione Internet. Eppure il nostro cervello è un’immensa Rete: abbiamo 85 miliardi di neuroni, dico 85 miliardi, che si connettono tra loro. Fu l’italiano Camillo Golgi a scoprirlo e gli fu assegnato il Nobel della Medicina nel 1906, con lo spagnolo Santiago Ramón y Cajal. Non possiamo rinunciare alla vita umana per la vita digitale».