Vittorino Andreoli: io, conquistato dalla città dei folli
Fonte: gazzettadimodena
11 aprile 2016 | Di Roberto Armenia
Lo psichiatra si racconta fin da quando giovanissimo capì che la sua strada era legata alla psichiatria. E parla anche del suo rapporto con Modena, "una città - spiega - geniale in cui mi trovo a mio agio"
“Non modenesus erit cui non phantastica testa”, cioè “non c'è modenese che non abbia idee balzane che gli frullano per la testa”. Parte da qui, il professor Vittorino Andreoli per spiegare l’affetto che lo lega a Modena e che lo ha portato spesso nella nostra città per presentare i suoi libri. In questa intervista Andreoli si racconta e racconta come è nata la passione per il “mondo dei matti” che lo ha fatto diventare uno dei punti di riferimento della psichiatria italiana.
Come e quando ha conosciuto il “mondo dei matti”? Come ha vissuto quel mondo, soprattutto in rapporto-confronto con la “città dei sani”?
«Era il 1959, dopo una conferenza del prof. Cherubino Trabucchi, allora direttore del manicomio di Verona, tenuta agli studenti che avevano terminato il liceo, sulla vita dei malati di mente, gli dissi che avevo intenzione di dedicarmi ai folli, ma poiché non conoscevo la città in cui vivevano, avrei voluto visitarla. Mi rispose senza esitazioni invitandomi ad andare da lui, al manicomio, il giorno dopo e così seguii il suo lavoro nello studio, in silenzio e dopo qualche giorno mi accompagnò a visitare i cinque padiglioni maschili e i cinque femminili. Ne rimasi profondamente impressionato, ma avvertii forte il desiderio di poter fare qualcosa per quei ricoverati. In quei giorni passai dalla follia come l'avevo immaginata a come si presentava e la mia passione uscì ancora più forte e decisa. Scelsi la facoltà di Medicina per fare lo psichiatra. Ma allo stesso tempo ottenni dal direttore del manicomio di poter frequentare fin da subito quella città».
Importante è stata la sua conoscenza con il professore Massimo Aloisi, che dal 1951 al 1959 è stato uno dei più apprezzati docenti di Patologia Generale all’Università di Modena. Perché ha voluto laurearsi con Aloisi? E inoltre, Lei è stato responsabile dell'atelier di pittura del manicomio di Verona. Quale il rapporto tra arte e follia? E cosa ha rappresentato nell'arte italiana il pittore folle Carlo Zinelli, cui Lei ha dedicato uno studio e un appassionato saggio?
«A Padova seguivo le lezioni e affrontavo gli esami con la voglia di giungere presto alla laurea (finii a giugno del sesto anno) per raggiungere il sapere e la condizione necessari per potermi dedicare ai matti. Lo scopo era chiaro nella mia mente e me ne accorsi subito: studiando l'anatomia delle ossa, mi dedicavo di più a quelle del cranio, e subito dopo mi ero impegnato sulla anatomia del cervello più che sugli altri organi. Il problema all'Università era per me saper scegliere la via per poter meglio conoscere la follia e giunsi alla convinzione che l'organo di riferimento era il cervello e che il mezzo più adeguato era seguire la scienza. La follia era coperta di pregiudizi, di mistero e persino di magia. Insomma dovevo diventare uno scienziato del cervello, e questa specificazione aveva come premessa imparare la metodologia che caratterizza il percorso scientifico. Il metodo è comune per tutti gli oggetti della ricerca scientifica. E a Padova c'era il professor Massimo Aloisi, le cui lezioni erano di grande significato per la razionalità che le caratterizzava. Volli diventare uno studente interno all'Istituto che egli dirigeva, la Patologia Generale, e fare la tesi con lui. Di solito gli studenti ammessi erano seguiti dagli assistenti, ma nel mio caso volli e ottenni di fare la tesi con lui: una vera eccezione. Era un uomo prima che un professore e dunque si caratterizzava per una ideologia: il marxismo e per un'etica professionale che sostituiva gli dei. L'istituto aveva molti modenesi poiché il professore, come lei ha ricordato, aveva insegnato prima nella vostra città. Certo era un antifascista e questo mi riportava all'insegnamento di mio padre, anch'egli antifascista silenzioso e vero, non da baraccone: il papà aveva un'impresa edile, lavorava per le ferrovie e venne estromesso ed emarginato, durante la guerra si nascose nell'Eremo dei Camaldolesi della Rocca del Garda… Ma ritorniamo al manicomio, dopo quella visita io lo frequentavo in ogni spazio libero dall'Università, e il sabato e la domenica mi portavo a casa qualche matto. Il luogo che mi divenne familiare all'interno della città dei folli è stato l'atelier di pittura che era nato nel manicomio nel 1957 e che riuniva 12 malati che avevano a disposizione i colori o le matite per disegnare o dipingere spontaneamente. Poiché i medici del manicomio erano poco interessati a quell'aspetto divenni subito una sorta di presenza, di guida e così conobbi la follia che dipinge: l'insania pingens. E vi erano due aspetti principali in quell'esperienza: la follia che crea opere d'arte e la pittura come linguaggio capace di trasmettere contenuti, emozioni e sentimenti che i malati, come gli schizofrenici, non esprimevano certo con il linguaggio verbale, che in loro è impoverito. Insomma quell'atelier era al contempo un luogo di creazione e anche un laboratorio per i linguaggi non verbali. Ed è qui che ho scoperto Carlo Zinelli, ho portato nel 1961 le sue opere a Jean Dubuffet a Parigi (il fondatore della Compagnie de l'Art brut) e fu allora che conobbi anche André Breton che aveva lanciato il surrealismo, ma che era psichiatra, anche se aveva esercitato la professione per poco. Un'avventura meravigliosa. Carlo Zinelli è oggi riconosciuto come un grande schizofrenico e un grande pittore, uno dei più grandi del Novecento. E in questa affermazione c'è il mio contributo che ha mutato il senso del rapporto tra arte e follia. Fino allora si diceva che il folle (per esempio van Gogh) era pittore nonostante la follia, da allora invece la sentenza è diventata grande pittore perché folle, e naturalmente cominciavo a vedere la follia non solo per i sintomi negativi, ma come una visione del mondo ricca di novità e di significato umano».
Lei è sempre stato un grande lettore. Pare dimostrato scientificamente che chi legge più libri è più felice. Quale l'importanza della lettura nella sua costante formazione?
«Dopo la laurea sono rimasto per un breve periodo nell'Istituto di Aloisi, ma qui non si studiava il cervello, ma il muscolo striato, dunque era ora di cambiare e raggiungere un luogo in cui si studiasse scientificamente il cervello: e arrivai a Milano all'Istituto di Farmacologia in cui si usavano le molecole che entravano nel cervello (psicofarmaci) come mezzi per capire come funzionassero e di conseguenza quali erano i meccanismi normali e patologici dell'attività cerebrale. Insomma per anni sono stato devoto al cervello e ho lavorato nei laboratori più importanti nel mondo (a Cambridge, in Inghilterra alla Cornell di New York, ad Harvard la grande università di Boston), fino al momento in cui ho sentito il bisogno di passare dal cervello al matto (uso questo termine con molto affetto) ed ecco il giro di boa. Vede, il tema della lettura è fondamentale poiché è uno strumento di comunicazione straordinario, con il quale lei può vivere le esperienze che hanno fatto altri scienziati. La lettura a cui mi sono dedicato dapprima era scientifica e poi clinica, altrettanto straordinaria poiché leggendo i casi clinici (di Freud per esempio), lei può immaginarsi a contatto con quel caso e seguirlo come ha fatto chi lo ha raccontato. La lettura scientifica e letteraria è una narrazione, purtroppo si possono anche dire tante sciocchezze. Ma io sono convinto che la lettura tolga l'uomo dalla superbia, dalla superficialità e che anzi più aumenta il sapere, più aumenta il dolore, come scriveva Seneca».
Oggi si parla spesso di cervelli in fuga. Ma già ai suoi tempi le università di altri Paesi esercitavano un forte richiamo. Cosa Le hanno insegnato le università, Cambridge, Harvard, New York, Boston... che frequentato? Quali scienziati ha stimato di più? Come ha deciso di ritornare in Italia? Quale il peso esercitato dalla sua città o dalla sua famiglia?
«Senta, io considero la questione dei cervelli in fuga una vera idiozia, una panzana inutile. La ricerca scientifica, e così anche quella letteraria, si svolge in tutto il mondo e ci sono centri di alta qualificazione e moltissimi di nessun valore. Dunque, se uno avverte la passione per un campo di studio deve andare nel luogo dove si lavora al massimo livello e slegarsi dal paesello. Il problema vero è che occorre creare delle strutture di ricerca modello anche in Italia, ma io spero che i cervelli veri se ne vadano per dare un contributo al sapere che appartiene all'uomo non alle geografie e ai territori. Io potevo stare a lavorare negli Stati Uniti, ma avendo deciso di occuparmi non più di cervello ma di uomini matti, sapevo che avrei potuto dare di più dove la follia parla la mia lingua, dove i malati risentono della cultura del mio paese. Sarei stato via, se avessi deciso di dedicarmi al cervello poiché il livello allora e adesso delle ricerche in questo dominio non permettono all'Italia di competere. Un Paese che in questo settore non investe, un Paese di superficie e legato al potere del denaro, delle raccomandazioni. Un raccomandato è psicologicamente un perdente».
Sulla psichiatria come ha influito l'operato di Franco Basaglia? Chi è, quale missione ha il clinico psichiatra?
«Basaglia è un capitolo importante della storia della psichiatria italiana. Ma ciò di cui c'è bisogno oggi non è di Basaglia ma di promuovere e di applicare una psichiatria scientifica fondata sulle ricerche cliniche e su un rapporto con il paziente che deve essere all'insegna non solo del rispetto ma di una vera passione. Sono passati 4 decenni dal tempo in cui Basaglia operava e oggi tutto è cambiato: i riferimenti “residui” e nostalgici sono privi di significato».
Lei, da sempre, è impegnato per una divulgazione dei temi psichiatrici. Quali i mezzi cui si è affidato in questa preziosa missione? Inoltre, come scrittore si occupa soprattutto di criminalità, droga, disagi giovanili, famiglia, anziani. Quali le opere che la rappresentano di più?
«È vero, mi sono impegnato molto nella divulgazione dei temi del comportamento umano, non solo del folle. Il comportamento umano è il risultato di tre fattori: biologico, quello delle esperienze passate che sono all'origine della nostra mente, e infine l'ambiente in cui uno esprime il proprio comportamento. Ebbene se la società non capisce questi fattori, non riesce nemmeno ad avere una rappresentazione della follia. Ed è fuori di dubbio che la follia è parte dell'uomo e della società in cui si situa. Dunque la famiglia, le persone, devono vincere la paura per il folle, capirlo e quindi accoglierlo conoscendolo. La follia è un tema comune nel senso che nessuno ne è immune: è questo uno dei miei contributi più decisivi quello della compatibilità della normalità anche con i crimini più efferati. Tra i miei saggi amo particolarmente “L'uomo di vetro” poiché introduce il tema della fragilità nel comportamento umano. Tra i romanzi amo “L'uomo senza identità”. E il tema è sempre la follia. “L'uomo senza identità” mi pare rispecchi la condizione antropologica dell’uomo del tempo presente. E questo termine esprime meglio la situazione esistenziale di oggi più del termine “società liquida”».
Nella nostra “società liquida” assistiamo a femminicidi, figlicidi, bambinicidi. Cosa sta avvenendo? Lei ha affermato che l'Italia è un Paese malato di mente. Che fare? Infine, il suo ultimo romanzo “La gioia di vivere” lo dedica a sua moglie e “alla sua gioia di vivere persino con un tragico come me”. Quali i desideri e i sogni del “portatore della visione tragica dell'esistenza” Vittorino Andreoli?
«Nel degrado del nostro tempo, l'insieme sociale ha un enorme peso. La civiltà è il passaggio da una fase di comportamento istintivo (pulsionale) ad un agire controllato nel rispetto di principi e leggi. Non vi è dubbio che il livello raggiunto dalla civiltà (nata nella Grecia antica) è ora in agonia e si sta tornando all'uomo pulsionale. E l'odio, la rabbia e la voglia di ammazzare non trovano più freni inibitori. In questo clima, regressivo sul piano antropologico, la morte ha perduto il proprio senso del mistero, del limite stesso della condizione umana, e uccidere è diventato banale. Si è passati dalla violenza finalizzata alla distruttività che significa uccido e rompo tutto come si trattasse di una piccola apocalisse di cui diventa parte anche chi la produce (il kamikaze). E così anonimi ammazzano anonimi. Un comportamento di grande preoccupazione poiché manca un riferimento morale per fermarlo. Da questo si capisce anche perché uno psichiatra come me, abituato a dedicarsi ad una persona sola alla volta, parli di un'Italia malata di mente e giunga persino a sostenere, come ne “La gioia di vivere”, che se il mondo non cambia e chi ne ha il compito non solo non vi riesce, ma anzi lo peggiora, allora bisogna cominciare a vederlo diversamente: non più come male, ma scoprendo la gioia possibile. Bisogna “cambiare gli occhiali” e guardare ai sentimenti, alle piccole cose dove ancora è possibile vedere onestà, generosità, perdono. Sono stanco di vedere i “Qualcuno”, sempre quelli, voglio soffermarmi sulle cose che riguardano i “Nessuno”: ci sono ma nessuno li nota. Mi chiedono come sia possibile vivere meglio. Ecco la risposta: cambiare la visione del mondo>.
Modena, dal Tassoni in poi, ha una consolidata tradizione d'ironia e umorismo. Che importanza ha ridere?
«Si dice che sia una delle doti che ha solo l'uomo (anche se alcuni mammiferi superiori sembrano capaci di ridere, solamente l'uomo è in grado di sorridere). Alcuni scienziati sostengono che esistono due tipi di sorriso: uno forzato e parziale che coinvolge solo alcuni muscoli del mento e delle guance ed uno spontaneo, aperto, che coinvolge anche i muscoli che si trovano intorno agli occhi. Il primo, sempre secondo questi studiosi, è frutto della recitazione che, a volte, la vita ci impone. Il sorriso spontaneo, invece, è seducente, conquista, ed è di natura sub-corticale, controllato dalle regioni cerebrali filogeneticamente più antiche, che si trovano nella parte più interna del cervello, quella che controlla l'emotività e i nostri comportamenti. Modena, o meglio i modenesi che ho conosciuto, mi sembrano rispondere al secondo tipo di sorriso: quello spontaneo, aperto. Predisposti per i rapporti interumani, estroversi con una naturale vocazione per la cordialità, il sorriso ed anche lo “sberleffo”, sempre all'insegna della cordialità, della bonomia, mai della cattiveria».
Lei è stato, più volte, a Modena. Quali i suoi rapporti con la città e i modenesi.
«Nell'opera “Baldus” di Teofilo Folengo, già nel 500, si legge “non modenesus erit cui non phantastica testa”, cioè “non c'è modenese che non abbia idee balzane che gli frullano per la testa” e un fondo di follia. Pertanto, essendomi sempre interessato, con passione, dei matti, non posso che trovarmi bene, a mio agio, a Modena, tra i modenesi. Che sono folli nelle loro idee, nelle loro iniziative e soprattutto sono creativi. Non sta a me ricordare la follia di uomini come Enzo Ferrari, come i molti imprenditori che inventano e brevettano oggetti e prodotti impensabili. Questo vale per la cucina, che dallo scalco ducale Cristoforo da Messisbugo a Massimo Bottura, è sempre stata apprezzata come fatto di cultura, creatività che si coniuga e sublima con la tecnica e l'innovazione anche ricorrendo alla scienza. Questo vale per i suoi gioielli nell'agroalimentare, nella ceramica che unisce stile ed eleganza della creazione artistica con i più moderni risultati della tecnica e della scienza. Vale nel biomedicale ed anche nella moda dove le creazioni dialogano con l'arte e dove (parafrasando Coco Chanel) la moda passa ma lo stile resta. Un capitolo a parte per i modenesi: quasi tutti quelli che ho conosciuto rispondono ai requisiti accennati prima: spontanei, estroversi, vocati ai rapporti interpersonali e alla massima cordialità. Questo vale per i modenesi di città e di provincia: negli anni sono stato in diverse località vive e frizzanti come Casinalbo, Fiorano, Sassuolo e Vignola, dove tornerò a luglio, il 30, per incontrare i cittadini. E il tema sarà proprio la differenza tra felicità e gioia di vivere».