Il dolore apre la strada ad amore e solidarietà
Fonte: L'Arena
15 febbraio 2022 | Silvia Allegri
"Io ho ricevuto tanto dal dolore e, senza il dolore che mi appartiene, mi sentirei certamente diversa e diverrei una sconosciuta a me stessa.
Non avrei identità. La sofferenza va messa come costituente possibile della gioia ed è segno della forza, un esercizio di coraggio attraverso la resistenza". Con queste parole la moglie del dottor Corrado Gelmi definisce il ruolo del dolore nella propria esistenza, rivolgendosi alle figlie. E anche lei, insieme a Mariam, Francesco, Corrado, Cristina, Paola, una dei protagonisti della Storia del dolore, (Solferino, 2022), il libro con cui il professor Vittorino Andreoli torna a parlare ai suoi lettori all'indomani di un periodo storico di enorme drammaticità come è stato, ed è ancora in parte, quello della pandemia.
Psichiatra di fama internazionale, già direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave, membro della New York Academy of Sciences, Andreoli affronta il dolore, quindi, un sentimento percepito sempre come scomodo e costantemente avvolto di numerosi tabù. Ecco come ci racconta la nascita del suo nuovo lavoro.
Professore, lei percorre nel libro storie di donne e di uomini che potrebbero essere quelli della porta accanto. E che provano dolori di diversa natura.
La mia attenzione si è rivolta al mondo quotidiano, con i problemi che lo attraversano: la tragedia delle migrazioni, le conseguenze della pandemia sulla mente umana, il rapporto spesso complesso tra generazioni, L'arrivo della vecchiaia, l'emarginazione del mondo contadino. Con questo libro ho voluto dare un particolare significato al dolore che tutti proviamo, quella sofferenza che fa parte della vita di ogni essere umano. Mi è sembrato che questo periodo di incertezza, ormai lungo e difficile, sia l'occasione per far pensare al dolore, quello fisico e soprattutto quello mentale. È il momento per dire che il dolore è una componente dell'esistenza: non riesco a pensare a un essere umano senza il dolore, sarebbe un robot. E a dirlo è uno che si è occupato del dolore degli altri per professione: io mi definisco l'uomo del dolore. Ho visto madri che perdono figli, figli che uccidono i genitori, adolescenti che fanno male agli altri ma in realtà fanno male prima di tutto a loro stessi.
Questo non vuol dire trasformare la vita in una valle di lacrime, anzi. Il dolore è anche una modalità per stabilire relazioni, per conoscersi.
Lei ha già parlato di dolore nei suoi libri.
Lo incontro costantemente nella mia professione perché la follia è una sofferenza non fisica. È la difficoltà di esistere, e io sono particolarmente sensibile a questo sentimento oltre ad avere, come tutti noi, esperienza del dolore. È un sentimento che non ha bisogno di essere definito perché ciascuno di noi lo conosce. Ma voglio ricordare che il dolore fa anche sentire il bisogno dell'altro, e permette dunque di passare dalla dimensione dell'io a quella del noi. Parliamo sempre di 'io', ma in ogni istante abbiamo la necessità di una relazione per sopravvivere, in ogni età, e la sofferenza permette all'essere umano di percepire i propri limiti.
Nel libro i protagonisti sono adolescenti, giovani, adulti, anziani, e il dolore è presente, ma non nel senso stretto a cui si utilizza questa parola.
Il dolore è un fil rouge che unisce diverse generazioni. Quale età non ha dolore? Ma non c'è nulla di drammatico, va semplicemente affrontato: può diventare una scoperta. Viene percepito come limitazione. In realtà la vera limitazione, l'unica vera malattia è la morte. Le altre malattie in fondo sono il segno del limite degli esseri umani.
Nella lettera che lei ha scritto al presidente Sergio Mattarella, per dargli il bentornato al Quirinale, lei parla della forza e della saggezza della vecchiaia, che permette di essere un sostegno anche alle generazioni più giovani.
La vecchiaia è un capitolo, l'ultimo, dell'esistenza, e ha la stessa importanza dell'ultimo capitolo di ogni libro. È solo in quel momento che si capisce il senso della storia, che si scoprono i significati che prima erano meno chiari. La considero una fase straordinaria in cui cambia il rapporto col denaro, non si devono timbrare cartellini, il tempo scorre in modo diverso. Un'età meravigliosa che però ha, come tutte, il rovescio della medaglia. Ci sono le malattie, e c'è il dolore.
Affronta anche forme di dolore più sottili, meno appariscenti.
Ho voluto parlare proprio del dolore quotidiano, quello che non è eccezionale. È il dolore di constatare la distanza che c'è tra il mondo di un nipote e quello di un nonno. È quello di Cristina e Paola, che decidono di vivere in una corte di campagna, costrette a nascondersi perché non capite e giudicate. In certi momenti bisogna faticare per non dividersi, per non mettersi uno contro l'altro. Quando Guglielmo, il medico, rischia la depressione, la moglie lo aiuta a rialzarsi e lui va a baciarla. Lo stesso fa il nonno col nipote. Il dolore apre la strada a tante esperienze positive, e proprio da lì nasce, o rinasce, l'amore.
C'è tanto di lei, in queste storie. E lei l'antropologo affacciato alla finestra, nella corte. Ma non solo.
L'antropologo del mio racconto riflette su come sia possibile, proprio in quel mondo contadino così calpestato, ritrovare la solidarietà. La prima storia, quella di Mariam, ricorda la mia esperienza africana di tanti anni fa, quando formai un primo gruppo di psichiatri africani ed ero stato aggregato a un villaggio, facendone parte a tutti gli effetti: mentre lo descrivevo, nel racconto della giovane donna che desidera tornare in Mali, era come se lo avessi avuto davanti. Anche nella storia del nonno e del nipote tornano elementi che mi appartengono, a partire dall'acqua e dal suo valore simbolico: l'acqua è vita. Le storie di queste persone sono anche le mie.
Come ci si difende dal dolore?
Noi psichiatri usiamo una sola parola per rispondere: elaborare. Un dolore va elaborato, dobbiamo dargli un significato, trovare un senso, scoprire il suo segreto. Ci sono tanti livelli di elaborazione, e di sicuro la condivisione è un metodo straordinario.
Nelle pagine del libro ritorna Verona, di cui lei ha ricevuto addirittura le Chiavi pochi mesi fa. Quale legame sente con la sua città, oggi?
Per me Verona è sempre stato un punto di riferimento. Avrei potuto vivere altrove, magari in America, ma ho scelto la mia città perché ogni uomo non è ‘io’, ma è piuttosto una piccola storia. Nelle nostre vite ci sono altre persone, c'è la generazione precedente e quella successiva, e c'è l'ambiente che ci ospita. Non saprei raccontare la mia storia senza Verona: tutto ciò che mi appartiene si situa in questo teatro, e solo questo. Certo, l'ho anche criticata, ma la mia è una critica amorevole: quando critico i Veronesi mi metto dentro, io per primo, perché anch'io sono parte della città. A volte non riesco a capire come si possa arrivare a un certo degrado dell'umanesimo e dell'umano. Dico anche le cose più scomode, se serve, e mi scandalizzo, mi indigno. Ma l'indignazione non è mai violenza, è solo dolore nell'accorgersi di ciò che non va. E serve prendere coscienza per cambiare.