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“Il corpo segreto”, una storia di malattia molto personale

Il primo approccio al ricovero è terrore e rabbia. Poi percezione dell’ingiustizia di una fine troppo precoce, considerate tutte le cose che gli rimangono da fare. Dopo, l’attenzione defluisce e si allarga; la prima è per sua moglie, di cui è tuttora innamoratissimo: e qui si aprono frasi di grazia poetica.      Il mio corpo era malato e i segni più evidenti riportavano proprio in quell’area che, anche se deputata a funzioni poco raffinate, era nobilitata dai giochi d’amore. E io, pur percependo il vivere come un mestiere faticoso e non essendo per nulla affascinato dal gioco, con lei spesso avevo l’età di un bambino.  Lo sguardo all’esterno si fa via via più acuto. E percepisce in prima battuta l’Attesa, con la A maiuscola, quella che ognuno di noi sperimenta nel quotidiano, attesa anche di cose banali.      La vita d’ospedale, oltre che per queste strane voci che penetrano senza una identità, oltre che per queste curiose visite che ti fanno rimanere male perché è come se ormai tu non fossi interessante per nessuno, è caratterizzata dall’attesa. Devi aspettare, e tu aspetti (…) E il compagno dell’attesa è il desiderio, ma anche la paura, perché può capitare ciò che volevi, oppure proprio ciò che tu ti auguravi che non accadesse. L’attesa più difficile è quella di quando ti porteranno in sala operatoria. La tua mente è percorsa dai pensieri più strani: forse non questa mattina, ormai è troppo tardi, forse non è arrivato il chirurgo, magari nella lista si è inserita un’urgenza. Meglio allora domani, il chirurgo oggi potrebbe essere troppo stanco, e qui non è come bruciare nel forno la torta di mele, il bisturi può fare disastri se taglia inavvertitamente un’arteria. Meglio aspettare ancora, ma chissà quanto….  Però, nell’attesa si innescano piccoli e grandi ‘combattimenti’, un po’ benevoli, ironici di quell’ironia dei ‘grandi’ che Andreoli possiede, e un po’ caustici: irresistibili.      In ospedale si aspetta e sembra sempre che non arrivi mai quello che attendi, ed entra sempre un altro che non serve a nulla. Talvolta arriva il prete. Anche se non lo si riconosce subito, perché ormai non veste più l’abito talare, e per il caldo non chiude nemmeno la camicia che fa risaltare il colletto da presbitero. Il Crocifisso ormai la Cei ha consigliato di tenerlo nel portafoglio. Ti rendi conto che è il prete solo perché parla del tuo futuro radioso: la prostata dopo le cure diventerà perfetta. La vicina vescica ricorderà quelle botti di rovere che danno il boccato all’amarone o al franciacorta, il tuo lavoro procurerà soltanto soddisfazione, finalmente anche l’economia mondiale migliorerà. Insomma ha un ottimismo e una fede grandiosi nel tuo futuro, e prima di andarsene conclude con: “Cristo ti vuole bene”. Tu vorresti domandargli perché, per volerti bene, debba prima inviarti una quantità di rogne: sei in ospedale, il lavoro non è gratificante, l’economia – almeno quella personale – è più malmessa della tua prostata. A me piacerebbe invece che il prete arrivasse senza nascondimenti, che ti parlasse della morte come una condizione che è inerente alla vita e non alla malattia. L’uomo muore perché non è immortale, come invece lo sono gli angeli, i santi e soprattutto Dio. Quindi, si muore anche se si gode di una salute perfetta, per il semplice motivo che l’uomo è colui che muore.  E via via, tra un ‘combattimento’ e l’altro (è interessante la posizione nei riguardi del ‘consenso informato’), si spalanca un riconoscimento di ragione e cuore, che vira verso la grande riconoscenza, nei confronti dell’ospedale. Percepito non più, adesso, come luogo di incubo soltanto, ma come ‘comunità’.      Sentivamo di dover essere grati a tante persone che lavoravano in quell’ospedale, di ringraziarle per i loro gesti, che erano stati così umani. Siamo troppo abituati a correre, a raggiungere scopi, a superare obiettivi fissati da qualche interesse, e così non ci accorgiamo dell’importanza dell’inutile, del significato dell’agire gratuito. Lasciando l’ospedale avevamo la sensazione del profondo senso che la vita assume quando gli uomini si incontrano casualmente e cercano di capirsi e di potersi donare. Durante quella mia degenza, tutti i simboli del profitto sembravano essere morti e avevano preso posizione invece l’inutile, il non profit, la gentilezza per la gentilezza, il gusto di essere uomini anche se con la prostata rotta, e con un catetere infilato nel simbolo del dominio maschile.  La consapevolezza della fragilità di tutti noi: eccola. Stiamo sicuri: Andreoli, come i grandi psichiatri e i più attenti, ha considerato l’argomento ben prima della sua esperienza devastante. Ma quello che vuol dire ora lo vuol dire a tutti, in un libro.      Io desidero mostrare a tutti la mia vecchiaia, un’età considerata di poco conto e che invece, valutata con il parametro della fragilità, è forse la più bella dell’esistenza, perché la più umana. Voglio che la mia vecchiaia si rappresenti in un teatro della verità, persino in quello che Antonin Artaud aveva chiamato “della crudeltà”, perché è crudele nascondere i vecchi che faticano a camminare o che stanno perdendo la memoria del presente e del passato, sentendosi abbandonati e senza alcun significato sociale. Io sogno un umanesimo della fragilità, dove la vecchiaia non sarà più una vergogna, ma la rappresentazione della condizione umana, del significato stesso dell’uomo nel mondo.  E poiché fragilità non significa necessariamente rassegnazione, docilità nel piegarsi, qui, a colloquio con il medico anestesista che sarà con lui durante l’intervento chirurgico, si parla di temi forti: il dolore, e il modo di trattarlo, nella storia della medicina e nel suo presente.      Anche i campioni di resistenza talvolta emettono un urlo che, come quello rappresentato da Munch, sconvolge il mondo, che trema e arriva a colpire persino le stelle e l’universo intero. Seguendo ciò che quel medico mi raccontava, e lo faceva con rapidità e con un linguaggio ricco e molto espressivo, si potevano distinguere due atteggiamenti che avevano identificato due civiltà del dolore. La prima, ormai relegata nel passato, si distingueva per l’amore verso il dolore, e comportava, per l’abnegazione che induceva, ammirazione per chi era sofferente (…). Questa cultura aveva chiesto di sopportare il dolore, di accettarlo. Ci si era spinti a sostenere persino che era inviato da Dio come espiazione del peccato individuale, ma anche di tutto un popolo, e in quel caso aveva il volto della peste, delle pandemie, delle guerre. Il dottore diceva che quest’atteggiamento culturale aveva invaso anche la medicina, imponendo un principio per cui il dolore non andava calmato o tolto, perché la sofferenza era il linguaggio, il sintomo principale di una malattia, senza il quale diventava impossibile riconoscerla e quindi curarla adeguatamente.  Alla fine, una Festa.      La festa per uno che era uscito dalla sala operatoria e che finalmente poteva, tra non molto, dimenticarsene, ma certo non avrebbe potuto scordarsi di quella esperienza umana che gli aveva fatto capire e sentire che la fragilità, se aiutata, finisce per diventare una risorsa e perfino una ricchezza. Quel giorno, forse per la prima volta, ero contento di avere avuto una prostata impazzita.  Nelle ultime pagine Andreoli scrive del dolore con poesia e insieme coscienza lucidissima: dolore psichico e del nostro corpo, unici e irripetibili entrambi per ciascuno di noi. “Nel dolore i pensieri sanguinano, il dolore impedisce perfino di amare. È una piccola o grande tortura, generata da un mondo che può riempirsi di nemici e che dimentica la solidarietà”. Eccolo qui il titolo del libro.      C’è un corpo segreto, dimenticato, che esiste solo quando, appunto, è malato (…) noi percepiamo la maggior parte del nostro corpo solo in questo caso. La malattia come coscienza del corpo che possediamo. Io ho conosciuto la mia prostata quando si è rotta, mentre la superficie del corpo la conosco, la indago, la curo, non tanto per una malattia, ma per l’aspetto, perché deve essere bella. Ecco una delle caratteristiche della società del nostro tempo: c’è un uomo dimenticato e ce n’è uno di superficie, su cui si converge un’attenzione esagerata, una preoccupazione sproporzionata; di conseguenza c’è anche uno squilibrio tra una parte d’uomo che esiste troppo e una che invece viene ignorata (…).

Fonte: vidas.it

4 novembre 2015

Maledetta morte. Ero attento e mi pareva di averla proprio lì, a poca distanza, mentre in quella camera dominava un grande silenzio.

I libri pubblicati, vado a spanne, sfiorano il centinaio. È Vittorino Andreoli, grandissimo psichiatra, veronese, che ci raggiunge qui con la sua scrittura avvolgente e ‘divulgativa’ nel senso più corretto e bello del termine. Questo titolo perché, tra i tanti? È una storia di malattia molto personale. Non molto tempo fa, pochi minuti dopo aver concluso una conferenza sul tema “Il corpo malato”, ha un’emorragia vescicale spaventosa. Di lì a poco gli viene diagnosticato un tumore alla prostata.

Per chi non sapesse, diciamo subito che, 75 anni, oggi Andreoli sta bene. È anche un sollievo, allora, leggere questa testimonianza di un medico che, divenuto paziente, si è trovato faccia a faccia con emozioni imprevedibili perfino per lui, psichiatra. Costretto a fare i conti non solo con un ‘se stesso’ a disagio, per frustrazione, paura, e molto altro, ma contemporaneamente con sofferenza fisica e pericolo di morte: esperienze piuttosto violente. Soprattutto se vissute insieme.

Quella notte fu un’eterna esperienza di fine. Continuavo a morire (…) E mi dispiaceva dovere tenere immobili le braccia, perché avrei voluto poter sollevare le mani, stringergliele attorno al collo e soffocarla (…) pur di realizzare un sogno: morire strangolando la morte.

Il primo approccio al ricovero è terrore e rabbia. Poi percezione dell’ingiustizia di una fine troppo precoce, considerate tutte le cose che gli rimangono da fare.
Dopo, l’attenzione defluisce e si allarga; la prima è per sua moglie, di cui è tuttora innamoratissimo: e qui si aprono frasi di grazia poetica.

Il mio corpo era malato e i segni più evidenti riportavano proprio in quell’area che, anche se deputata a funzioni poco raffinate, era nobilitata dai giochi d’amore. E io, pur percependo il vivere come un mestiere faticoso e non essendo per nulla affascinato dal gioco, con lei spesso avevo l’età di un bambino.

Lo sguardo all’esterno si fa via via più acuto. E percepisce in prima battuta l’Attesa, con la A maiuscola, quella che ognuno di noi sperimenta nel quotidiano, attesa anche di cose banali.

La vita d’ospedale, oltre che per queste strane voci che penetrano senza una identità, oltre che per queste curiose visite che ti fanno rimanere male perché è come se ormai tu non fossi interessante per nessuno, è caratterizzata dall’attesa. Devi aspettare, e tu aspetti (…) E il compagno dell’attesa è il desiderio, ma anche la paura, perché può capitare ciò che volevi, oppure proprio ciò che tu ti auguravi che non accadesse. L’attesa più difficile è quella di quando ti porteranno in sala operatoria. La tua mente è percorsa dai pensieri più strani: forse non questa mattina, ormai è troppo tardi, forse non è arrivato il chirurgo, magari nella lista si è inserita un’urgenza. Meglio allora domani, il chirurgo oggi potrebbe essere troppo stanco, e qui non è come bruciare nel forno la torta di mele, il bisturi può fare disastri se taglia inavvertitamente un’arteria. Meglio aspettare ancora, ma chissà quanto….

Però, nell’attesa si innescano piccoli e grandi ‘combattimenti’, un po’ benevoli, ironici di quell’ironia dei ‘grandi’ che Andreoli possiede, e un po’ caustici: irresistibili.

In ospedale si aspetta e sembra sempre che non arrivi mai quello che attendi, ed entra sempre un altro che non serve a nulla. Talvolta arriva il prete. Anche se non lo si riconosce subito, perché ormai non veste più l’abito talare, e per il caldo non chiude nemmeno la camicia che fa risaltare il colletto da presbitero. Il Crocifisso ormai la Cei ha consigliato di tenerlo nel portafoglio. Ti rendi conto che è il prete solo perché parla del tuo futuro radioso: la prostata dopo le cure diventerà perfetta. La vicina vescica ricorderà quelle botti di rovere che danno il boccato all’amarone o al franciacorta, il tuo lavoro procurerà soltanto soddisfazione, finalmente anche l’economia mondiale migliorerà. Insomma ha un ottimismo e una fede grandiosi nel tuo futuro, e prima di andarsene conclude con: “Cristo ti vuole bene”. Tu vorresti domandargli perché, per volerti bene, debba prima inviarti una quantità di rogne: sei in ospedale, il lavoro non è gratificante, l’economia – almeno quella personale – è più malmessa della tua prostata. A me piacerebbe invece che il prete arrivasse senza nascondimenti, che ti parlasse della morte come una condizione che è inerente alla vita e non alla malattia. L’uomo muore perché non è immortale, come invece lo sono gli angeli, i santi e soprattutto Dio. Quindi, si muore anche se si gode di una salute perfetta, per il semplice motivo che l’uomo è colui che muore.

E via via, tra un ‘combattimento’ e l’altro (è interessante la posizione nei riguardi del ‘consenso informato’), si spalanca un riconoscimento di ragione e cuore, che vira verso la grande riconoscenza, nei confronti dell’ospedale. Percepito non più, adesso, come luogo di incubo soltanto, ma come ‘comunità’.

Sentivamo di dover essere grati a tante persone che lavoravano in quell’ospedale, di ringraziarle per i loro gesti, che erano stati così umani. Siamo troppo abituati a correre, a raggiungere scopi, a superare obiettivi fissati da qualche interesse, e così non ci accorgiamo dell’importanza dell’inutile, del significato dell’agire gratuito. Lasciando l’ospedale avevamo la sensazione del profondo senso che la vita assume quando gli uomini si incontrano casualmente e cercano di capirsi e di potersi donare. Durante quella mia degenza, tutti i simboli del profitto sembravano essere morti e avevano preso posizione invece l’inutile, il non profit, la gentilezza per la gentilezza, il gusto di essere uomini anche se con la prostata rotta, e con un catetere infilato nel simbolo del dominio maschile.

La consapevolezza della fragilità di tutti noi: eccola. Stiamo sicuri: Andreoli, come i grandi psichiatri e i più attenti, ha considerato l’argomento ben prima della sua esperienza devastante. Ma quello che vuol dire ora lo vuol dire a tutti, in un libro.

Io desidero mostrare a tutti la mia vecchiaia, un’età considerata di poco conto e che invece, valutata con il parametro della fragilità, è forse la più bella dell’esistenza, perché la più umana. Voglio che la mia vecchiaia si rappresenti in un teatro della verità, persino in quello che Antonin Artaud aveva chiamato “della crudeltà”, perché è crudele nascondere i vecchi che faticano a camminare o che stanno perdendo la memoria del presente e del passato, sentendosi abbandonati e senza alcun significato sociale. Io sogno un umanesimo della fragilità, dove la vecchiaia non sarà più una vergogna, ma la rappresentazione della condizione umana, del significato stesso dell’uomo nel mondo.

E poiché fragilità non significa necessariamente rassegnazione, docilità nel piegarsi, qui, a colloquio con il medico anestesista che sarà con lui durante l’intervento chirurgico, si parla di temi forti: il dolore, e il modo di trattarlo, nella storia della medicina e nel suo presente.

Anche i campioni di resistenza talvolta emettono un urlo che, come quello rappresentato da Munch, sconvolge il mondo, che trema e arriva a colpire persino le stelle e l’universo intero. Seguendo ciò che quel medico mi raccontava, e lo faceva con rapidità e con un linguaggio ricco e molto espressivo, si potevano distinguere due atteggiamenti che avevano identificato due civiltà del dolore. La prima, ormai relegata nel passato, si distingueva per l’amore verso il dolore, e comportava, per l’abnegazione che induceva, ammirazione per chi era sofferente (…). Questa cultura aveva chiesto di sopportare il dolore, di accettarlo. Ci si era spinti a sostenere persino che era inviato da Dio come espiazione del peccato individuale, ma anche di tutto un popolo, e in quel caso aveva il volto della peste, delle pandemie, delle guerre. Il dottore diceva che quest’atteggiamento culturale aveva invaso anche la medicina, imponendo un principio per cui il dolore non andava calmato o tolto, perché la sofferenza era il linguaggio, il sintomo principale di una malattia, senza il quale diventava impossibile riconoscerla e quindi curarla adeguatamente.

Alla fine, una Festa.

La festa per uno che era uscito dalla sala operatoria e che finalmente poteva, tra non molto, dimenticarsene, ma certo non avrebbe potuto scordarsi di quella esperienza umana che gli aveva fatto capire e sentire che la fragilità, se aiutata, finisce per diventare una risorsa e perfino una ricchezza. Quel giorno, forse per la prima volta, ero contento di avere avuto una prostata impazzita.

Nelle ultime pagine Andreoli scrive del dolore con poesia e insieme coscienza lucidissima: dolore psichico e del nostro corpo, unici e irripetibili entrambi per ciascuno di noi. “Nel dolore i pensieri sanguinano, il dolore impedisce perfino di amare. È una piccola o grande tortura, generata da un mondo che può riempirsi di nemici e che dimentica la solidarietà”. Eccolo qui il titolo del libro.

C’è un corpo segreto, dimenticato, che esiste solo quando, appunto, è malato (…) noi percepiamo la maggior parte del nostro corpo solo in questo caso. La malattia come coscienza del corpo che possediamo. Io ho conosciuto la mia prostata quando si è rotta, mentre la superficie del corpo la conosco, la indago, la curo, non tanto per una malattia, ma per l’aspetto, perché deve essere bella. Ecco una delle caratteristiche della società del nostro tempo: c’è un uomo dimenticato e ce n’è uno di superficie, su cui si converge un’attenzione esagerata, una preoccupazione sproporzionata; di conseguenza c’è anche uno squilibrio tra una parte d’uomo che esiste troppo e una che invece viene ignorata (…).