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Il privilegio di invecchiare

Fonte: La Stampa

11 gennaio 2023 | Simonetta Sciandivasci

Lo psicanalista: "Gli anziani sono una risorsa e non un peso. Impariamo a coinvolgerli nel futuro" Non è vero che dopo i 65 anni si deperisce. Anzi, ci si libera dalla competizione e dall'interesse.

La vecchiaia è la novità del nostro tempo. Sembra un paradosso, e invece è un privilegio, un traguardo che siamo i primi della storia dell'uomo a poter sperimentare, anche se non ce ne rendiamo ancora conto (e questo è un classico del nostro tempo: l'incapacità di riconoscere un vantaggio). Ne è convinto lo psicanalista Vittorino Andreoli, che nel suo ultimo libro Lettera ad un vecchio, da parte di un vecchio (Solferino), profila quella che chiama la nuova età della vita: la condizione esistenziale del futuro. Lo fa perché non tollera lo spreco di risorse che la svalutazione e l'incomprensione della vecchiaia comportano, così come non tollera chi la camuffa, la maschera, la vezzeggia, illudendosi che il modo migliore per andare incontro al futuro sia approssimare gli ottantenni ai sessantenni, e i sessantenni ai quarantenni, illudendosi che l'età sia un'invenzione culturale, quando il solo arbitrio sta nel tipo di attributi che alle età diamo e non al fatto che esistano. Al pari della denatalità, l'invecchiamento demografico è, per Andreoli, un fatto socio culturale e, insieme, una chance.
In Italia, dove ci sono 5,4 anziani per ciascun bambino (nel 1951 ce n'erano meno di uno), adottare la visione di Andreoli è complicato dal fatto che gli anziani sono (sembrano) una classe egemone da quasi ogni punto di vista e così esiste il paradosso per cui invecchiare si gnifica tanto infiacchirsi, deperire, approssimarsi alla morte, mutilarsi, di giorno in giorno, poco a poco, quanto acquisire saggezza, esperienza, credibilità: potere. Una sciocchezza che, secondo Andreoli, deriviamo dall'idea che abbiamo dell'andamento della vita: crediamo sia un arco, e invece è una linea retta, e questo vuol dire che non ci sono fasi ascendenti o discendenti, e che non è vero che per metà della vita ci espandiamo e per l'altra metà ci ritraiamo. La sola cosa vera, o almeno giusta, per Andreoli, è che mutiamo. Percorriamo una strada sempre più lunga e, nel farlo, ci trasformiamo: ci adattiamo all'ambiente, al tempo, allo spazio, agli altri.

Professore, cosa hanno in comune un vecchio e un bambino?
‹Il desiderio».

Definisca desiderio.
«La capacità che ciascuno di noi ha di immaginare che, domani, la propria condizione potrà essere diversa da oggi».

Quindi il futuro.
«Sì, il futuro».

La vecchiaia è la nuova età della vita. Una risorsa immensa per il nostro futuro

Ma il bello dell'essere anziani non è la libertà dall'ossessione del fare e accatastare che si ha nella fase della vita in cui si è dominati dal futuro?
«Certo. L'anzianità ti dà accesso alla bellezza dell'esserci, alla gratitudine che provi nel semplice fatto di essere vivo. Ed è qualcosa di molto diverso dalla gioia di vivere che hai a vent'anni. Abbiamo fatto sforzi e sacrifici per allungare il nostro tempo sulla terra e ora che ci siamo riusciti, consideriamo i vecchi un peso, anziché festeggiare che, insieme all'aspettativa di vita del tutto mutata e grandemente ampliata, abbiamo a nostra disposizione una maniera nuova, diversa di guardare la vita. Non ci sofferiamo sullo sguardo dei vecchi sul mondo: ci accontentiamo di perpetrare l'idea che sia uno sguardo stanco, rancoroso, oppure fuori tempo, lento, inutile. Ed è per questo che nemmeno ci avviciniamo ai vecchi, se non assomigliano ai giovani. E diciamo che sono soli, invece non è vero. I vecchi sono abbandonati, non soli».

I vecchi sono anche sacralizzati, però.
«Quelli potenti e ricchi, sì. Ma sono pochi».

I vecchi non aspettano altro che nutrire le relazioni, servire agli altri uno spazio di pace.

La cultura popolare li considera saggi, anche quando non sono ricchi e potenti.
«La saggezza è un attributo che è stato assegnato ai vecchi quando invecchiare era un'eccezione, una rarità tale da essere perfino considerata un dono degli dèi. Il vecchio saggio era il corrispettivo del giovane eroe».

E adesso?
«La qualità degli anziani non è la saggezza: è la pace. Non lottiamo per lavorare, e nemmeno per guadagnare (ecco, questo è eccezionale per me: la libertà dal denaro). Scompaiono tutte le preoccupazioni legate alle aspettative degli altri, scompare la competizione».

E subentra che cosa?
«Il desiderio di rendersi utili».

Nessuno ruba il lavoro ai giovani ma lavorare sta diventando meno necessario

Come?
«Ascoltando. Glielo dico da psichiatra: moltissimi pazienti che si sono rivolti a me avevano solamente bisogno di qualcuno che li ascoltasse. Se fossimo una società logica e intelligente, metteremo a frutto questa capacità dei vecchi di sostenere e ascoltare, di raccontare, di dare. Non è di questo che l'umanità ha terribilmente bisogno, non è questo abbraccio che, poi, finiamo con l'appaltare ai medici, perché la sua mancanza ci dilania tanto da ammalarci? Glielo assicuro da anziano: i vecchi non aspettano altro che nutrire le relazioni, servire agli altri uno spazio di pace, un ristoro dalla frenesia, dalla guerra, dalla vita attiva e dal suo assalto».

La immagina così, la società del futuro? Un mondo dove i vecchi siano di supporto (psicologico, diciamo così) ad adulti e bambini?
«Ma si rende conto di quale patrimonio umano ha da offrire un'intera popolazione (siamo il venti per cento degli abitanti della Terra) che, pur essendo ancora attiva, lucida, in forze, non deve più lavorare? A Padova, qualche anno fa, mi sono occupato di una comunità per anziani al cui interno c'erano degli asili. Era magnifico: nei giardini, si incontravano vecchi e bambini che uscivano da scuola, sembravano una gigantesca famiglia allargata, ed erano soltanto sconosciuti che camminavano in un parco».

Lettera a un vecchioÈ economicamente sostenibi¬le un mondo di vecchi?
«Senta, per piacere, dica vecchi. A me piace la parola vecchio. Odio, invece, senile, longevo, uomo della terza età. Tutto questo addolcire che non è altro che un tradire, un negare».

Scusi. Risposta?
«In Inghilterra molti lavorano 4 giorni a settimana, spesso da casa. La domotica e l'automazione renderanno superfluo molto del nostro lavoro. Qui continuiamo a raccontare che non c'è lavoro perché i vecchi non lasciano spazio ai giovani: la verità è che il lavoro non ha più senso, inteso come lo intendevamo anni fa. La nostra Costituzione dice che siamo una Repubblica fondata sul lavoro: non è lontano il futuro in cui non lo saremo più».

E in quel futuro cosa auspica per i vecchi?
«Che sappiano capire quanto sono fortunati, che sappiano chi sono, che sappiano che non è vero che si smette di amare: il sesso non è solo una funzione organica. Che sappiano che tutto, nel corpo di un vecchio, non si indebolisce: cambia perché ci sono esigenze diverse».

Lei scrive che essere presbiti è una risposta adattiva.
«Certo. Perché se uno non deve agire, a cosa gli serve vedere da vicino? E se uno non deve agire, a cosa gli serve essere forte?».

Ottimista.
«Le dico di più. La memoria: ci hanno detto finora che i vecchi la perdono. Falso. Semplicemente, ricordano solo ciò che serve. Fino a poco tempo fa pensavamo che i neuroni smettessero di moltiplicarsi da una certa età in poi: è stato scoperto che non è vero. Anche la nostra memoria si adatta al ruolo sociale: se ci dicono che siamo dei rimbambiti inutili, ci deprimiamo e scordiamo tutto».

Che ne pensa del fatto che la tv e i giornali dicono di non poter cambiare troppo perché hanno un pubblico vecchio?
«Scuse. I vecchi sono ghiotti di cambiamento, proprio perché non lo agiscono. La tv e i giornali si rivolgono, semplicemente, al pubblico che ha più soldi: gli adulti. Ai vecchi rifilano le pubblicità dei pannoloni e i quiz, visto che li hanno convinti di dover esercitare la memoria».

Come mai questo Paese è governato quasi solo da vecchi?
«Perché il potere lo gestiscono sempre le stesse persone. Che invecchiano, come tutti».