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CORONAVIRUS COME LA PESTE

Fonte: bresciaoggi.it

8 febbraio 2020

«Il coraggio non mi manca, è la paura che mi frega», diceva Totò. Battuta fulminante, che conferma come la paura cosiddetta difensiva sia in realtà quella che ci dà coraggio, che ci fa agire. Ma oggi la paura è diventata paranoia, anzi «panico» come dice il professor Vittorino Andreoli. «E il panico paralizza l’uomo, lo immobilizza, lo rende fermo. Senza spinta».

E da qui parte il celebre psichiatra veronese per un’analisi profonda del nuovo male di vivere del nostro tempo: la psicosi del coronavirus è solo l’ultimo esempio di come la paura quando diventa globale è paranoia, panico. Nell’ultimo libro «Homo incertus» (Rizzoli, 360 pagine) lancia un grido di allarme su quello che la nostra società sta diventando, una volta che si sono via via perdute le certezze.

Professor Andreoli, mai tema è stato più attuale: sta dilagando in tutto il mondo la paura del coronavirus, strade deserte in Cina, cadaveri lasciati in strada...

Siamo nel XXI secolo ma dal punto di vista della nostra mentalità e delle nostre reazioni siamo nelle stesse condizioni delle pesti manzoniane e questo rinforza quanto sostengo nel mio libro: la paura è il tema di grande attualità. Torna la sindrome del noli me tangere, ci si chiude in casa, c’è il terrore della contaminazione, si vuole scappare. C’è la paralisi. Il momento che stiamo vivendo è quello della peste medioevale.

Si registrano anche gesti violenti, insulti...

La paura genera violenza. Quando la paura diventa vero panico, non c’è ragione che tenga, la ragione viene azzerata. La nostra civiltà è riuscita ad evolversi passando dalle pulsioni alle regole civili ed etiche. Ma istinti e pulsioni prendono il sopravvento, ritornano in primo piano se non sono controllati e la ragione non serve più. C’è da aspettarsi di tutto. Stiamo attenti, perché questo ci può portare a un ritorno all’uomo selvaggio.

Di fronte alla paura o si scappa o si attacca. Andreoli, perché oggi abbiamo più paura di ieri? Che cosa è accaduto?

Oggi non esistono più punti di sicurezza, quelli che ci facevano sentire bene, al riparo, difesi. Oggi non c’è più neppure un luogo che riteniamo sicuro, non ci sono gli affetti, sembra non esserci più nulla che tenga. Ieri ci davano sicurezza la proprietà, il denaro e gli affetti: oggi? Non bastano più. Prendiamo ad esempio la classe media, che è sparita: c’è la paura di un impoverimento generale, basta scendere un po’ nel tenore di vita e ti ritrovi nella povertà. Una volta si faceva un’assicurazione o si mettevano i soldi in banca, ora non ti senti più protetto neppure lì; una volta la sicurezza erano gli affetti, la moglie o il marito, o i figli. Oggi consumiamo gli affetti come fossero scarpe. Si buttano via, se ne prendono di nuovi.

La sua è nostalgia o osservazione del reale?

No, non è un discorso nostalgico il mio, è l’osservazione di quello che vedo, registro, sento dai miei pazienti che l’uomo di oggi si è rotto. Non ha più appigli. L’uomo contemporaneo è molto più fragile rispetto a 30, 40 anni fa.

Il mondo digitale forse ha aiutato questa evoluzione?

C’è una fragilità enorme, si rompe tutto e non c’è un’area nella quale uno si possa rifugiare per dire: mi sento bene. Parliamo del digitale: tra password, virus, furto di identità furto nei conti correnti: quale fede si può avere nella sicurezza digitale? Uno dei grandi business è la cybersecurity, il che dimostra che se vogliono possono entrare nel tuo mondo digitale. Ti dà sicurezza il fatto che la schermata del tuo pc cambia ogni giorno? O ti fa pensare che qualcuno sappia entrare nel tuo pc? E la fede religiosa? Non c’è più neppure quella. Nelle chiese è più facile che si entri per ammirare le opere d’arte che per ascoltare la messa. La sicurezza che dava la fede è venuta meno: una volta a messa andava il 95-96 per cento delle famiglie, oggi il 14 per cento, forse.

L’uomo impaurito, l’uomo incerto che cosa diventa? Che società costruisce?

Diventa paralizzato. Dal punto di vista psicologico l’uomo incerto non fa nulla. E se lo fa, agisce solo perché deve e quindi senza motivazioni e senza passioni. Che non ci sono più. Andiamo quindi verso una società passiva, ferma, che per paura non prende più iniziative. C’è la paura che se sbagli vieni licenziato, resti disoccupato e non trovi più lavoro.

E il futuro allora?

Ecco, questo è il punto. Si resta concentrati sull’oggi per cercare di migliorare il proprio presente, ma si perde di vista il domani. Ti concentri sul presente per cercare di superare la paura, non cadere di nuovo in depressione, stare un po’ meglio. Non è la paura difensiva, questa, ma è una paralisi che toglie il futuro. È panico.

Come gestire questa insicurezza, questa paura?

Sul piano individuale è possibile rassicurare le singole persone, puoi condividere le paure di chi ha attacchi di panico, ma si deve capire che soltanto l’uomo può aiutare l’altro. Qui invece c’è una società spaventata. Una società bombardata da una politica che non lancia messaggi rassicuranti ma di continua contrapposizione. Oggi prevale la cultura del nemico e invece si deve tornare a credere negli altri. Perché l’uomo impaurito, paralizzato, ha bisogno di credere nell’altro, di tornare a fidarsi. Siamo invece senza dialogo e rispetto, quando quello che ci serve è un nuovo Umanesimo, che permette a una comunità di vivere insieme.

La paura è stata cavalcata da molti, è un’arma molto forte...

Certo, la paura è stata un business, è stata cavalcata perché più diffondi la paura, più c’è bisogno poi di un potere forte. E quindi la paura della povertà, la paura della crisi aiuta chi ha il potere, perché è a loro che ti rivolgi quando sei insicuro; una volta ci si rivolgeva al Padre eterno, no? Invece la forza dell’uomo risiede nel bisogno dell’altro. Dobbiamo fare i conti con la nostra fragilità che non è debolezza ma una necessità di sentire i propri limiti, capirli e rivolgersi agli altri: senza gli altri non puoi stare bene.

Lei nel libro usa la parola per-donare, perché?

Perché dobbiamo rivalutare l’economia della gratificazione, facendo del bene, e il per-donare, se si riesce a farlo, significa stare bene. Non si tratta di fare un regalo, ma anzi di dare qualcosa di sé. E senza il rispetto dell’altro viviamo nella nostra chiusura e nell’egocentrismo tanto è vero che anche le città, se viene a mancare questa fiducia, non hanno futuro e vanno in degrado, retrocedono.

Se vogliamo ripartire, dunque?

Ripartiamo dall’uomo che deve aiutare l’uomo. È un errore pensare che separandosi, restando soli, ci si difenda meglio. Non si può vivere senza una società e quindi dobbiamo ragionare come comunità e volare alto. Osservo purtroppo una regressione che ci spinge e ci chiude dentro l’io. Invece o ci riapriamo al noi o andiamo a finire male.