Da “sapiens” a “stupidus”: se trascuriamo valori la civilta’ tecnologica rischia di precipitare nella barbarie

Fonte: cybertrends.it

«Non stiamo dando più importanza ai principi con il risultato che stiamo progressivamente precipitando nella barbarie.

La civiltà non è un fatto scontato, ma una conquista che passa attraverso la trasmissione di valori e comportamenti. Così da sapiens sapiens, l’uomo di oggi corre il rischio di trasformarsi in “stupidus stupidus”, facile preda di nuove solitudini oltre che vittima di una patologia sempre più diffusa: l’autismo digitale».

Fa molto riflettere l’ultimo saggio di Vittorino Andreoli, (Homo Stupidus Stupidus, edito da Rizzoli) tra i più noti psichiatri italiani, da sempre attento osservatore e studioso delle complesse dinamiche sociali che attraversano la contemporaneità.

Professore, come Lei scrive l’uomo sembra aver perso il ”beneficio della neocorteccia”. Perché la nostra specie sta facendo di tutto per ”meritare” il poco lusinghiero attributo di ”Stupidus Stupidus”?

Dobbiamo prima di tutto intenderci su un dato di fondo: la civiltà che abbiamo faticosamente raggiunto nel corso di millenni di storia si fonda su principi e comportamenti praticati e appresi. Significa che se non riusciremo a trasmettere alla prossima generazione determinati valori e stili di comportamento, siamo destinati a smarrire tutto quello che abbiamo erroneamente considerato come un patrimonio definitivamente acquisito. Le neuroscienze sono molto chiare in proposito.

Cosa intende dire?

Semplicemente che il grado di civiltà che abbiamo conquistato con grande sforzo, non è contenuto nei nostri geni, non è la realizzazione dovuta alla messa in pratica di un comportamento meccanico istintuale, è un importante risultato propiziato da quella parte del cervello “plastico” che si forma sulla base delle esperienze e che presiede all’apprendimento, alla creatività, che è poi il vero motore della nostra attività intellettuale. Vuol dire in concreto che i neuroni di questa porzione della neocorteccia si riuniscono in circuiti, in una struttura sofisticata che presiede al tatto mnemonico, all’idea, alle facoltà cosiddette superiori. Così se non diamo più importanza alla dimensione valoriale e ai principi, al rispetto della vita, la regressione diventa, non un’ipotesi vaga, ma un prospettiva certa.

Ripiombare nella barbarie, come ha denunciato Alessandro Baricco nel suo celebra saggio “I barbari”, da provocazione diventa un fatto possibile?

Mi permetta una citazione. Il neuroscienziato Paul Donald MacLean sostiene che abbiamo tre cervelli. Il primo è quello degli istinti, proprio dei rettili, il secondo è quello delle emozioni, posseduto dai mammiferi, il terzo è quello del pensiero inteso in senso più alto. Sappiamo grazie agli studi più recenti che mentre i primi due sono stampati e prefigurati fin dalla nascita, come si trattasse di un PC che ha già il software definito, il terzo si forma dentro di noi, come risultato di un processo. Le scoperte eccezionali operate dall’uomo sono frutto di un’evoluzione continua, è questa la nostra grandezza, ma anche la nostra debolezza, perché non si tratta di un percorso irreversibile, il pericolo che si inneschi una marcia indietro è sempre dietro l’angolo. Le criticità emergono nel momento in cui, come dimostrano i tanti casi di attualità, si fa strada la mancanza di rispetto dell’altro e i valori vengono calpestati, a quel punto a dominare non sarà più il cervello alto ma quello basso, quello che presiede i bassi istinti. E’ così che si piomba in quella che Gianbattista Vico definiva: la “condizione selvaggia”. Ognuno tenderà ad appropriarsi di tutto ciò che vuole, i tanti femminicidi praticati per cieca gelosia, la violenza sui bambini e gli esseri più indifesi dimostrano che non ci sono più regole, l’altro è un nemico da abbattere. Possiamo definire “sapiens sapiens” un’umanità ridotta in questo stato?

La tecnologia, questa protesi che dovrebbe colmare la nostra imperfezione, che ha generato una sorta di pericolo “illusionismo” è la principale responsabile di questa marcia indietro?

La tecnologia, penso per esempio allo sviluppo del cervello digitale, ha permesso grandi conquiste. Senza il PC non avremmo scoperto il bosone di Higgs, le onde gravitazionali, ingegneri e fisici ormai costituiscono il corpus di un’intelligenza collettiva che ci porterà a nuovi traguardi. Il problema nasce quando si fa un uso distorto di questi strumenti. Faccio un esempio: stiamo perdendo l’uso della memoria dei numeri. Per telefonare a un amico o a un genitore facciamo un clic, senza fare nessun esercizio per ricordare il numero. Questo vuol dire che fra non molto non sapremo fare più alcun calcolo, il mondo dei numeri di fatto è scomparso. Discorso ancora più grave si può fare per la memoria semantica. Quando parliamo siamo abituati ad associare un suono a un significato. Nel linguaggio ordinario usiamo circa 150 parole, poche rispetto alle trentamila indicate dalla Treccani, questo declino già denunciato dai linguisti è destinato ad accentuarsi, perché la maggior parte delle persone comunicano con dei segnali, utilizzando il pc. Il rischio che si profila è quello di non parlare più, arriveremo all’AUTISMO DIGITALE, un universo chiuso, popolato da tante monadi che non comunicano. Il Pc rafforza questa tendenza alla schematizzazione: utilizziamo il ditino in su se qualcosa piace e in giù quando non piace. A dominare è la logica binaria, non più la logica razionale che, almeno da Aristotele in poi, è posta a fondamento del pensiero e della civiltà occidentale.

Le “costanti di distruttività”. Oltre alla progressiva “caduta dei principi” il saggio denuncia l’escalation di alcuni fattori “costanti di distruttività”, quali: violenza, guerre, volontà di difesa del territorio. Si tratta di elementi che da sempre caratterizzano la specie umana, in perenne lotta per la sopravvivenza. Oggi la posta in palio è però ancora più alta: l’intera civiltà occidentale sta correndo verso il baratro. Cosa possiamo fare?

Il rischio esiste e va denunciato. Non sono un apocalittico, ci sarà sempre l’uomo a emergere, in altri contesti storico geografici si stanno facendo infatti strada i filosofi del post human, che apriranno nuovi spiragli di pensiero di riflessione. E’ la civiltà occidentale sotto scacco se non riusciamo a trovare adeguate contromisure. La questione non è tanto relativa alla violenza, che è un comportamento orientato a uno scopo, e in quanto tale si può ridimensionare e sconfiggere. La distruttività mi preoccupa molto di più, quella cieca volontà di potenza che travolge tutto, il terrorismo globale è l’esempio drammatico che può far comprendere a cosa mi riferisco. Tutto viene travolto senza un fine, il corpo diventa un’arma, che ingoia tutto. Così abbiamo distrutto antiche città, musei, luoghi di ritrovo, biblioteche. Difficile trovare un antidoto di fronte a una follia, che non ha più una logica, un orizzonte di senso.

Il potere, tra i fattori di distruttività elencati, è forse il termine più ambivalente. Come lo si può definire nel contesto della società globale che sta sperimentando una profonda mutazione del concetto stesso di democrazia?

Quando parlo del potere intendo il potere come “verbo” perché il sostantivo include il concetto di autorità, divenendo altro e va maneggiato con cura. Potere come verbo vuol dire: faccio perché posso. Come nel caso che ricordavo della distruttività, esiste anche un potere che viene esercitato senza scopo. Platone sosteneva che il potere doveva avere come fine supremo la felicità di tutti. Oggi non accade nulla di tutto questo: la dinamica la si vede molto bene anche nella politica, dove spesso si contraddice l’altro solo per spirito di propaganda senza mai entrare nel merito delle questioni. Il Potere fine a se stesso è, insomma, il “verbo dominante” di questa epoca densa di contraddizioni.

La condizione dell’uomo con-temporaneo, incerto e confuso, non comprende più il potere, sembra solo subirlo, non crede?

La condizione umana si caratterizza per la fragilità, che è data dal bisogno dell’altro, dal desiderio di conoscere, mentre il potere non ha bisogno dell’altro se non per dominarlo. Questo è l’umanesimo della fragilità, che segna e segnerà le nostre vite.

La rete e i “padroni dell’umanità”. Malgrado tutto l’individuo è capace di risollevarsi. L’ ”uomo rotto”, spiega nel saggio, può ritrovare la serenità. Dobbiamo essere ottimisti?

Mi definisco un “pessimista attivo”. I rischi sono quelli che abbiamo cercato di individuare, ma bisogna continuare a cercare il meglio senza sosta. Nel lungo cammino della nostra evoluzione abbiamo meritato il doppio appellativo di “sapiens”, se pensiamo alla poesia, al Canto XXXIII del Paradiso, alla scienza, alle grandi scoperte ci ricordiamo di quante meravigliose realizzazioni l’uomo è stato ed è capace. Dietro “l’uomo rotto”, che ho studiato con massimo interesse da psichiatra, ho sempre ritrovato questa grandezza di cui ogni individuo è portatore, per questo continuo a guardare avanti con fiducia.

“Neoumanesimo digitale” è la prospettiva da più parti auspicata, come ci ricordano gli ultimi scritti di Morin, Sennett, Ceruti, Sen, e dello stesso Baricco ricordato prima. Le pare una via d’uscita realmente praticabile?

A condizione di tornare a un umanesimo nuovo, che guardi all’altro come valore, dove ci sia un senso del limite, che bandisca quella stupidità, che non conosce la sapienza. Lo stupido si ritiene perfetto, il sapiente coltiva il dubbio, per questo ha dei margini di crescita. Tutta la nostra civiltà è fondata sul dubbio, i dialoghi di Platone, hanno questa radice che è la stessa che informa l’”umiltà socratica”. Difendiamo ciò che umano. Non vergognandoci di quella fragilità che mi porta ad avere bisogno dell’altro, nella consapevolezza di quell’utilità reciproca, che rinsalda il bisogno della relazione e del confronto.

Avremmo in sintesi bisogno di riaffermare la centralità di un individuo più equilibrato, non certo un “uomo senza misura” che vive il capovolgimento della dimensione Protagorea, che vedeva il soggetto come espressione di una suprema armonia tra spirito e natura. Riusciremo a recuperare il giusto bilanciamento in una società sempre più polarizzata, rosa da povertà crescenti, preda di paure e di una crescete insicurezza?

Potremo riuscirci se ci impegneremo a scrollarci di dosso la duplice attribuzione di “stupidus”, “studidus”. Utilizzo ancora questo termine nel senso di stupore, perché rimango attonito nel constatare come l’uomo possa precipitare così in basso, dopo esser stato protagonista di tante straordinarie conquiste. Purtroppo abbiamo perso la misura. Torno a parlare delle tecnologie e del loro uso. Internet è un eccezionale strumento, purtroppo oggi è sempre più in mano di poche persone, che non sono imprenditori ma sfruttatori. Il linguista Noam Chomsky li ha in un recente saggio definiti “I padroni dell’umanità”, si tratta di individui senza scrupoli che si prendono gioco dell’uomo, per questo entrano nelle loro vite, violano la privacy, senza ritegno alcuno. Il recente caso di Cambridge Analytica deve far riflettere chi opera sul fronte della sicurezza dei dati.

Valori e società digitale La tendenza a semplificare fa sì che non si problematizzano più parole come “Verità”, “Religione”, “Bellezza”, “Res Publica”, “Amicizia”, “Ragione”, termini complessi che hanno impegnato per secoli scienziati e filosofi. Il “pensiero dominante” sembra avere tutto l’interesse a semplificare negando la densità e la profondità di un tessuto concettuale, che appartiene alla nostra storia e civiltà. Quali sono le ragioni di questo atteggiamento?

E’ una tendenza diffusa che mira al pensiero unico, a negare la differenza e il pluralismo. Pensiamo alla religione. Al di là delle diverse confessioni, rammentiamoci che un Dio esiste per tutti, perché esiste un’impronta del sacro. Sappiamo tutto questo ma ci fermiamo a commentare solo piccoli fatti, segnati da esteriore superficialità. Eppure il sentimento religioso fa parte dell’essenza dell’uomo. Solo gli individui concepiscono la trascendenza, percepiscono una verticalità, che gli scimpanzé non possono né sentire, né concepire.

In chiusura del saggio evoca “Timore e tremore”, celebre opera del grande filosofo danese Soren Kierkegaard. Che cosa fa tremare e cosa terrorizza uno psichiatra che ha saputo, nel corso di una lunga e brillante carriera, misurarsi con tante manifestazione del male, esorcizzandolo?

Misurarsi con la dimensione dell’assurdo. Quello che descrive Kierkgaard in “Timore e tremore” è degno di studio per l’uomo di ogni tempo. Dio, come è noto, suggerisce ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco. Un controsenso, qualche cosa di inaccettabile per qualsiasi genitore. Abramo riesce comunque a trovare una soluzione, va oltre l’assurdo, segue la regola che ha appreso: sa che Dio c’è, ne ha avuto esperienza. Noi di fronte alle contraddizioni che attanagliano l’uomo contemporaneo a differenza di Abramo non facciamo niente, scappiamo. Il grande conflitto, il dramma è proprio questo: c’è una strada indicata dalla civiltà che ci porta verso l’alto, all’opposto ne esiste un’altra che ci porta verso la regressione. Non dobbiamo mai finire di lottare entrare dentro questa contraddizione per superarla, perché a prevalere sia la tensione verso obiettivi di progresso e di crescita umana e civile, perché di questo, mi creda, abbiamo un bisogno estremo e disperato.