La percezione della morte nel mondo adolescenziale

Fonte: notedipastoralegiovanile.it

(da: Notiziario Banca popolare di Sondrio)

La morte nella nostra società

Voglio iniziare prendendo una posizione molto netta: dobbiamo insegnare la morte. Troppo spesso ho sentito dire, anche nell'ambito della Chiesa, che si intendeva evitare un simile argomento, che era meglio parlare di cose gioiose.

In realtà non si può apprezzare l'esistenza se non si affronta questo tema. È tempo che i genitori, la scuola e tutti quelli che si occupano di educazione si confrontino con questo aspetto.
Oggi la morte è diventata un evento banale, anzi non è nemmeno un evento, non lascia traccia, è un fatto che si può provocare e poi continuare a vivere come se nulla fosse successo. Anche l'uccidere è diventato insignificante.
Insomma quello che più mi spaventa è la banalità che circonda questo termine. Non è possibile privare di valore un accadimento che, indipendentemente da come lo si intenda, rimane comunque un punto interrogativo, un limite.
La morte è la fine del tempo, almeno di questo tempo della città della Terra. Allora qualunque sia la soluzione che ciascuno può dare in base alle fedi, in base alle convinzioni, la morte è un fatto che deve sempre suscitare un grande interrogativo. Anzi creare una condizione di ansia.
La morte è un dramma, un dramma anche per chi ha delle soluzioni che la interpretano come il punto di partenza per la gioia. La morte ci deve colpire e colpisce tutti, i giovani e i vecchi.
Certo la morte acquisisce una colorazione particolare in rapporto alle età ed io ho scelto questa sera di dedicare il tema ad uno specifico spaccato del nostro mondo: gli adolescenti.
Nell'adolescenza giocare con la morte finisce per essere molto attraente. Quando sono chiamato a cercare di capire che cosa sia accaduto nella mente di un ragazzo che abbia ucciso – i genitori, un amico, un insegnante, le cronache sono spesso piene di queste storie – vado negli istituti minorili e chiedo sempre: «Per te che cos'è la morte?».
Le risposte sono innanzi tutto di sorpresa, per la domanda. «Mah, non so, non mi sono mai chiesto», dicono. E allora ribatto: «Ma tu hai ucciso, hai provocato la morte, quindi qualcosa penserai».
Si può uccidere senza sapere che cos'è la morte. Si può veramente cercare la morte senza conoscerla.
Anzi, dal momento che parlo di una fascia di età molto giovane, si può persino morire senza sapere cos'è la morte e avendo poco conosciuto che cos'è la vita. Mentre parlo ho di fronte casi reali, non c'è bisogno di fantasia, la cronaca è purtroppo oltre ogni fantasia possibile.
Mi riferisco, però, non solo a quando si uccide ma anche quando c'è un'autodistruzione. Non possiamo dimenticare che tra le cause di morte più frequenti negli adolescenti la prima è rappresentata dai suicidi e poi dagli incidenti stradali. Però sappiamo che il 30% degli incidenti stradali sono suicidi mascherati, cioè delle modalità indirette che si scelgono, anche inconsapevolmente, per giungere a sfidare questa sconosciuta: la morte.
Ecco perché, allora, è assurdo decidere sulla base di strani estetismi di non affrontare questo tema, né a casa, dove si finisce per discutere solo di calcio, dove tra l'altro esiste una violenza che è anche qui al limite, né a scuola e in tutti quei luoghi e comunità dove i ragazzi si incontrano.

La dimensione del tempo

Voglio però uscire dallo specifico termine morte per inserirlo in una dimensione più ampia: la dimensione del tempo.
Tutti noi abbiamo se non un figliolo adolescente, un nipote, qualche volta abbiamo degli allievi. Dobbiamo riconoscere che uno dei problemi principali di questa età è proprio come l'adolescente percepisce il tempo.
Questa percezione del tempo è diversissima da quella dell'adulto. Potremmo persino dire che una delle differenze fondamentali tra padri e figli sta nella coscienza del tempo.
Mi verrebbe voglia di parlare di Sant'Agostino, perché sul tempo ha dato delle straordinarie sensazioni e meditazioni, ma io sono molto più legato alla città della Terra, e le mie intenzioni sono di essere molto più pratico.
Di regola la percezione del tempo inizia da un passato che si lega alla memoria e che generalmente ha lasciato traccia a partire intorno ad un anno, un anno e mezzo di vita, almeno una traccia consapevole. Oggi sappiamo tuttavia che già dalle prime settimane esiste una qualche forma di memoria, che non è quella verbale attiva, ossia non ricordiamo che cosa è successo, ma si fissano in noi delle immagini. Si parla di memoria (implicita) di quelle prime esperienze, per esempio dell'esperienza del rapporto bambino-madre.
Forse già ci sono memorie nel grembo materno. È stato dimostrato come dal quinto mese e mezzo di vita il feto cominci a percepire i suoni acuti, dunque si ipotizza che ci sia una forma di ricordo anche di questo, ma non rappresentabile secondo simboli verbali.
Se la percezione del tempo inizia da un passato che risale molto indietro rispetto a quello che si reputava finora, a questa memoria non verbale, e si estende fino al presente per proiettarsi nel futuro, dobbiamo necessariamente chiederci quale sia la percezione che l'adolescente ha di ciascuna di queste tre dimensioni: passato, presente, futuro. È interessante poi fare un confronto con quello che ciascuno di noi ha.

Il passato

Chi è arrivato alla mia età è già molto più passato. Dico spesso che vivo più di morti ormai che di vivi: mio padre, mia sorella, non ci sono più, tanti amici sono morti, ma me li porto dentro.
Ecco la grande forza della memoria.
La memoria, diceva Agostino, è qualche cosa che non c'è, ossia un'assenza che io rendo presente. È bellissimo questo capovolgimento, perché si può pensare al passato che non c'è ma proprio il fatto di ricordarlo in questo momento lo rende vivo. È, si può dire, una resurrezione attraverso la memoria.
C'è una fase della vita in cui è bene che ci si sieda e si pensi anche di scoprire questo tempo trascorso che appartiene a noi e che, tuttavia, non conosciamo bene perché non ne abbiamo completa consapevolezza. Si possono allora rivivere delle relazioni con persone che non ci sono più.
Ecco perché non dobbiamo avere paura di dire: vivo di morti. E per questo non abbiamo bisogno delle parole. Ma del silenzio. Un silenzio che non è vuoto, ma un silenzio che porta dentro un sacco di cose.
Ricordo quando tanti anni fa, ero molto giovane, morì mio padre. Pensavo di non farcela a vivere. Come potevo vivere senza quello che era il mio piccolo eroe, che avevo in casa? Non l'ho perso perché il mattino quando mi sveglio ho la sua immagine sul comò e lo saluto. C'è, indipendentemente dai problemi teologici. Affettivamente è dentro di me. E sembrerà un paradosso, ma con il ricordo si arriva a godere della morte, una morte che non è solo tragedia ma con la memoria e i sentimenti diventa presente, "vita".
Qual è, invece, il passato dei nostri figli, degli adolescenti?
Non c'è. Però siamo noi che abbiamo anche pudore nel ricordare e quindi nell'aiutare a costruirlo. Mi chiedo spesso perché le storie personali finiscano per diventare prive di significato mentre domina la grande storia, quella maiuscola, quella fatta di grandi eroi, che magari poi nelle revisioni successive perdono la loro grande dimensione. Invece è importante la piccola storia.
lo sono veneto, di Verona, e ricordo come nel tempo del dopoguerra la maggior parte degli uomini che lavoravano duramente consumava molto vino; allora chi non beveva era da ricoverare! Non voglio difendere l'alcolismo, ma dico che è un fenomeno che è appartenuto a quell'epoca. Perché non parliamo dei nonni, dei bisnonni, perché bevevano? Di quella mia nonna Virginia che tabaccava, come un grandissimo papa, Leone XIII?
Perché insomma non raccontiamo la storia facendo in modo che gli adolescenti non credano che il tempo incominci con la loro nascita, come se il mondo fosse apparso ieri e quando si domanda di riflettere sulle esperienze precedenti trovano che sia assolutamente inutile perché il loro passato è nulla. È nulla.

Il presente

E il presente? Riguardo al presente, invece, gli adolescenti sono addirittura iperconcreti, cioè sono legati esattamente all'istante, al qui e ora.
È tipico il comportamento del sedicenne che arriva a casa e dice: «Papà, voglio il motorino». Di solito il padre, serio, risponde: «Te lo comprerò non appena avrai finito l'anno scolastico». Il genitore cioè lo prospetta subito nel futuro e il ragazzo non capisce. Insiste: «Papà ma mi serve stasera, domani, perché i miei amici ce l'hanno. Se io non ce l'ho perdo il gruppo, rimango solo. Mi serve adesso».
La vita di adesso: è questo il riferimento della loro esistenza.

Il futuro

Il futuro? Il futuro non c'è. Il futuro è domani, il domani, qualche volta arriva al week-end, forse alle vacanze. Ma non esiste quella dimensione del futuro che si perde lontano e che arriva all'eterno. D'altra parte come sarebbe possibile? Se non c'è la percezione del futuro come si può parlare di eterno?
Ricordo che, quando ero adolescente io, e non ne ho nostalgia, tra le tante cose che si discutevano c'era il dubbio se, sposando una ragazza, il legame rimanesse per sempre, anche nell'eterno.
Certo, qualche volta dico a mia moglie: «Stai tranquilla perché siamo insieme solo da 39 anni, se il legame dura in eterno mi devi sopportare per molto tempo ancora».
La dimensione dell'eterno entrava nelle tematiche. Adesso non c'è più. Oggi il futuro è legato a qualcosa che si riesce a vedere e quando si dice a un adolescente: «Facciamo un progetto che avverrà tra 5 anni, tra 10 anni», non riesce a comprenderne il significato.
Ecco allora la diversità tra una progettualità dei genitori nei confronti del proprio figliolo e quella del ragazzo che arriva solo poco più in là.

Percezione del futuro e della morte

Una delle questioni che tutti, padri, madri, educatori, sacerdoti, insegnanti, devono affrontare è: ma quale percezione del tempo ha mio figlio, mia figlia adolescente? Perché se, ragionando all'estremo, per quel ragazzo il mondo è incominciato ieri, quando è nato lui, ed è come se potesse finire domani, perché non ha il senso del futuro, si comprende come divenga difficilissimo fare educazione o poter indurre a comportamenti che sono di grande impegno.
Ma se non c'è la percezione del futuro, la morte dove va a finire? Anche la morte scompare. Non c'è.
Tanto che oggi sosteniamo che esistono due morti nella nostra cultura: c'è la cosiddetta morte esistenziale che si caratterizza con il lutto, cioè con la percezione precisa di una perdita, la perdita di una persona cara. Una morte che comprende l'agonia. Oggi l'agonia è sparita. Non si può certo rappresentare, nemmeno in televisione, perché tutti cambierebbero canale.
Nello spettacolo le morti sono sempre improvvise, anzi, e questa è la seconda categoria cui accennavo, sono morti estetiche. Si dice: è morto al ralenti, ossia seguendo tutto un processo, una teatralità.
La morte esistenziale che si comincia a percepire nell'agonia, qualcosa che fa sentire anche a chi non ne è coinvolto direttamente che sta avvenendo un distacco, ci porta a interrogarci sul viaggio, sulla fine del tempo.
Questa esperienza oggi non c'è più. Un tempo si moriva nelle case e c'era una netta distinzione tra stare male e morire. Non esiste nemmeno dal punto di vista delle categorie, tanto che si finisce per dire cose assurde: è morto per arresto cardiocircolatorio come se senza un simile evento non potesse esserci una morte. È una tautologia, persino una banalità.
Ma simili frasi sottolineano come ormai la morte sia considerata una sorta di malattia, qualcosa per cui bisogna mandare in ospedale, in un luogo apposito.
Un tempo la morte aveva una propria dignità. Era un evento legato alla storia e alla vita, tanto che esisteva una distinzione netta: se uno stava male andava dal medico, se uno stava per morire di solito si chiamava il prete.
Non è un dettaglio formale, si tratta invece di una netta distinzione, perché allora la morte era percepita come fatto esistenziale, legato all'esistenza. Non è più così. Oggi esiste la seconda morte, che è la morte spettacolo. È la morte televisiva.
Queste sono le morti che conoscono gli adolescenti e hanno delle caratteristiche precise che le differenziano dall'altra categoria. Innanzi tutto la morte spettacolo è sempre una morte improvvisa, quindi non c'è l'attesa, non c'è l'accompagnamento, non c'è la preparazione né a morire né delle persone che sono vicine al moribondo. Invece accade sempre per un evento acutissimo. Una specie di coup de thé&re che mostra un evento solo per un istante e poi scompare.
Inoltre quasi sempre la morte spettacolo ha a che fare con un eroe. C'è un protagonista che muore e quindi è un fatto pieno di fascino, muore la persona verso cui si è provata ammirazione, si è stati presi dalle sue azioni.
Terza caratteristica: la morte spettacolo è transitoria, perché si può vedere morire uno sul primo canale ma sul terzo o sul quinto la stessa persona sta facendo qualcosa invece di molto attivo.
So di grandi personaggi, di rockstar, che hanno lasciato su internet una testimonianza vivente di sé. Se si entra in un dato sito strutturato in maniera interattiva, nonostante la rockstar sia morta, le si possono rivolgere delle domande cui risponderà.
Anche questo dà una percezione della morte come qualche cosa di teatrale, persino una via che può servire a togliersi d'impaccio. Anzi la morte diventa una modalità per difendersi da una condizione difficile.
Voglio a questo proposito raccontare un caso accaduto circa 10, 12 anni fa. Allora nel nostro Paese si stava verificando una serie di casi, numericamente considerevoli, di suicidi nelle caserme, soprattutto nel Friuli. Venni incaricato dall'allora Capo di Stato Maggiore dell'Esercito di vedere cosa stesse succedendo, anche perché si stava creando proprio una condizione di panico.
Siccome tra questi suicidi c'erano stati due casi di mancato suicidio, ossia situazioni in cui la persona ha compiuto un atto per morire ma per una serie di circostanze del tutto casuali questo non è accaduto, decisi di ascoltare questi ragazzi. Uno di loro aveva 19 anni. A quel tempo c'era la leva obbligatoria.
Questa è la storia di un ragazzo di 19 anni che prestava servizio in una caserma di Pordenone. Aveva il compito di guardia ad una zona che conteneva armi e la sua mansione consisteva nel girare, con un collega, attorno a questo piccolo arsenale per rendere impossibile che qualcuno si avvicinasse.
Quel giorno doveva smettere il turno alle 6 del pomeriggio. Aveva un piano per la serata: alle 6 avrebbe finito il turno, avrebbe fatto la doccia, sarebbe andato in mensa e poi sarebbe uscito per recarsi in città con altri commilitoni per incontrare delle persone. C'era una buona integrazione tra i militari e la popolazione, e questo ragazzo aveva un qualche progetto proiettato su una ragazza.
Quindi stava aspettando di poter uscire e mettere in atto questo suo piccolo futuro quando, circa mezz'ora prima della scadenza del turno, un ufficiale, o un sottufficiale, lo raggiunge per dirgli che deve proseguire per altre due ore.
Il ragazzo cerca di reagire ma non c'è niente da fare. L'ufficiale non si smuove e il ragazzo continua a fare quello che deve ma con la percezione chiara che non potrà uscire quella sera.
Così, ad un certo punto, prende il fucile che ha in dotazione per svolgere il suo compito, se lo punta al torace e spara. Per una serie dí motivi il percorso fatto da questa pallottola non ha leso il cuore.
lo lo vado a trovare non appena i sanitari garantiscono che gli si può parlare e cerco di rianalizzare il percorso mentale che lo ha spinto a quel gesto.
Mi racconta che doveva finire alle ore 6, e che lui doveva proprio uscire, che in questo modo i suoi amici andavano e lui non poteva andare e non avrebbe visto la ragazza.
Subito gli domando quello che verrebbe in mente a qualsiasi adulto: «Ma potevi uscire la sera dopo, mi sembra che non ci fosse una situazione tanto drammatica per cui quello che potevi fare quella sera certo lo avresti ripetuto la successiva».
E questo ragazzo mi rispose: «Ma professore, allora lei non ha capito: io dovevo uscire quella sera».
Non c'era verso di riuscire a mettere dentro nel nostro dialogo una piccola dimensione di futuro. Quella condizione era divenuta insopportabile e la morte pareva persino una modalità per togliersi da una situazione invivibile.
Ho raccontato questa storia per dirvi come si possa pensare alla morte, cioè senza nessuna angoscia, senza il dramma, ma semplicemente come la delusione di quel momento. Ecco perché non si può ricorrere al futuro come prospettiva. E senza il futuro non solo sparisce la morte o acquisisce queste modalità eroiche, spettacolari, ma è impossibile anche guidare la crescita.

Io attuale e io ideale

La grande forza della crescita sta nella differenza che esiste tra come si è oggi, tra come io sono adesso e come vorrei essere. È la distinzione che facciamo tra io attuale e io ideale. Ognuno di noi ha due dimensioni di sé, una che esprime in quel momento, io sono così, e una che invece vorrebbe realizzare, che è appunto l'io ideale. Si tratta di una parte fondamentale nella crescita perché permette di dire: «Oggi io sono così, avverto dei limiti, non mi piaccio, però domani...».
In altre parole l'io ideale è qualcosa che l'io attuale rincorre. Questo è il vero agonismo: dentro di noi, non quello in cui si fanno gli sgambetti. Anzi una certa insoddisfazione della condizione attuale sollecita il desiderio di raggiungere una dimensione diversa, quella dell'io ideale. Proprio attraverso lo scarto tra io attuale e io ideale, io creo dei progetti, posso spostare una delusione attuale perché la proietto in una realizzazione domani.
Se manca il futuro questo processo non c'è. Allora un adolescente che non concepisca il senso del tempo futuro non ha i due io e tutto si riduce a come è, a come si sente in quel preciso momento.
Senza progettualità diventa impossibile anche proporre un cambiamento, diventa impossibile un piano di crescita perché tutto viene preso e considerato alla luce della situazione istantanea.

A-mor(t)e

Quindi il futuro è una dimensione importantissima, perché si lega al desiderio, ma al futuro si lega anche la percezione del tempo che finisce, la morte.
Permettetemi qui di giocare su questa parola. Tra le tante ipotesi della semantica ce n'è una che a me piace molto, sebbene non accolta univocamente, ed è quella che la lega ad amore.
Amore, secondo alcuni'studiosi di filologia, nascerebbe da "a morte" dove "a" è l'alfa privativo del termine morte. In questa lettura amore è la contrazione di a-mor(t)e. E l'amor(t)e, l'amore, diventa in qualche modo una terapia della morte. È bellissimo perché l'amore si conferma in qualche modo come un'antitesi della fine. Dall'amore dovrebbe nascere la vita, lo insegna anche la Chiesa in modo particolarmente forte In questo periodo storico.
Allora, parlando di morte, ci si riallaccia all'amore, ci si riallaccia cioè all'amore che ha un significato se si percepisce anche la morte, la fine del tempo.
Accade anche a chi ha una lunga esperienza, un legame lungo, che più passa il tempo più lo sente come una ricchezza, gli dà importanza perché si comincia a intravedere il limite e acquista ancora maggior significato.
Insomma quello che vorrei sostenere è che insegnare la morte, descriverla, parlarne, non significa affatto fare un trattato né di filosofia né di teologia, ma se ne può parlare proprio attaccandosi a quel nonno che non c'è più, ma diventa anche una maniera per poter recuperare il significato dell'amore, dell'amore appunto come qualcosa che serve persino a superare quel limite della fine, della morte.
Benedetto XVI ha distinto bene le due dimensioni dell'amore nell'enciclica Deus charitas est: la prima è la parte terrena, è la parte dell'amore tra un lui e una lei, una sorta di lettura particolare del Cantico dei Cantici in termini di amore terreno. Però c'è una seconda parte in cui non ci sono più solo lui e lei, ma prende spazio la vita come dimensione di eterno e specificamente come la Chiesa e Cristo.
Insisto, parlare di morte significa anche parlare di amore e lo dimostra bene anche la letteratura, a questo proposito, quella dei mistici, per esempio, come Santa Teresa di Avila, i mistici che sono degli innamorati, anzi dei cotti, innamorati cotti di Dio. L'amore è un legame, un sentimento fortissimo che ci aiuta a vincere le paure.
Se volete aiutare un adolescente che è insicuro, che non si piace, è inutile dargli tante spiegazioni. Abbracciatelo, toccatelo, stringetelo. Fategli sentire che cos'è un legame, che cosa vuol dire stare insieme e come essendo insieme si riesca a ridimensionare la paura.

L'adolescenza come metamorfosi

Non voglio definire l'adolescenza con caselle rigide, però è certamente un periodo di metamorfosi.
Incomincia con la pubertà, cambia il corpo, muta la personalità e anche il modo in cui si vede il mondo. Quest'ultima ne è una conseguenza, perché nella metamorfosi sempre si perde l'identità e, smarrendola, si diventa insicuri.
L'importanza dell'identità cominciano a capirla persino gli uomini che si occupano di azienda.
Adesso che il mercato si è aperto ed è diventato mondiale, non ci sono più barriere; ebbene in questo momento in cui si pensava che la cosiddetta globalizzazione avrebbe fatto perdere le identità tradizionali, che cosa abbiamo scoperto? Che in realtà mai come in questo momento in cui l'agire dell'uomo sta andando lontanissimo come non si pensava 30, 40 anni fa, magari passando da luoghi sconosciuti, c'è un'attenzione enorme alle cose locali. Tant'è vero che abbiamo creato questa specie di sentenza: «Puoi andare tanto più lontano quanto più sei radicato dentro la tua identità».
Ora un adolescente, proprio perché è in continuo cambiamento, non ha un'identità e quindi senza identità è facile la paura. Ma nella paura c'è bisogno di dare rassicurazioni, che emergono solo attraverso i legami sentimentali.

Ragione e sentimento nell'adolescente

Da un punto di vista educativo, che è il piano dei genitori e degli insegnanti, dobbiamo tenere distinte le categorie del pensiero, dei contenuti, ossia come un ragazzo percepisce il denaro, o l'amore e l'impegno a scuola, dai sentimenti. Con questo non nego che si debba in famiglia o nella scuola o nelle parrocchie, nelle associazioni sportive, in qualsiasi posto, parlare di contenuti. Però prima dovete essere certi che si sono stabiliti legami affettivi.
Questo cosa significa? Significa che se un ragazzo fa delle cose che non condividete, dovete esprimere la vostra disapprovazione, dire: «Non accetto quello che tu hai fatto, perché va contro tutti quelli che sono i miei principi, per cui ho lottato persino» e speriamo che ci siano tanti padri che possano dire così. «Però ricordati che qualunque cosa tu faccia, che vuoi dire anche peggio, qui ci sono tuo padre e tua madre che ti vogliono bene».
Garantiamo così la permanenza e la forza di quel legame perché davvero allora sarà possibile discutere anche di quei temi su cui manca la visione concorde. Invece non siate contenti quando vostro figlio vi dà ragione, perché poi magari esce, incontra gli amici, parla con loro e già cambia idea.
Le idee sui contenuti risentono molto dei tempi e delle culture, risentono degli altri. Mentre i legami una volta che si sono stabiliti non si spezzano o almeno sono più duraturi.
Per cercare di arrivare anche ai contenuti la sola strada è questa: i legami.
E ciò evita anche a voi posizioni incerte. Se ha fatto male non gli potete dire che invece va bene, e la vostra forza deve derivare dalla coerenza, ma perché sia recepito il vostro parere il legame deve esserci, un legame non di solidarietà, con i figli la solidarietà non c'entra niente, mentre c'entra con tutta la comunità. Questo è un legame più essenziale. Affettivo vuoi dire che io, padre, ho bisogno di lui, del figlio e lui ha bisogno di me.
Ecco, perché l'altra domanda che ciascuno dovrebbe rivolgersi è: «ma io padre, io madre, ho veramente bisogno di mio figlio?» Se manca questo, il figlio è semplicemente un problema e voi siete semplicemente quelli che dovete risolvere i problemi e ciò non è bene.
È importante essere padri e c'è una soddisfazione straordinaria, perché andate a casa in quanto avete bisogno di lui, certo lui ha bisogno di voi.
Questa è la forza dei sentimenti. E sentimento vuol dire anche commuoversi di fronte a un figlio. Non crediate che per fare i padri e le madri o gli insegnanti si debba essere perfetti.
Se noi dovessimo dire che per fare i padri bisogna essere perfetti non ci sarebbero più padri, mentre invece dobbiamo far sentire che è possibile il legame affettivo anche con la fragilità. Nella fragilità ci sono i sentimenti, eccome se ci sono. La voglia di aiutare ed essere aiutati.
Futuro significa mostrare a questi ragazzi il progetto.
La nostra società ha tagliato il futuro, non esistono più le programmazioni a lungo termine, anche nelle aziende tutto si concentra sul tempo reale. Eppure bisogna far vedere che comunque, seppure con strategie diverse dal passato, c'è il futuro, che c'è un futuro in cui possono cambiare le cose, in cui quell'io ideale potrà diventare attuale, che ci sarà un futuro e che questo futuro ha delle sicurezze che sono i legami affettivi. E allora, si può anche non essere d'accordo su molti aspetti pratici, sulla famosa ora del rientro a casa, per esempio, che certo va discussa, però sarà più facile arrivare ad un punto di comprensione ed aiutarli ad evitare scelte molto rischiose quando riusciremo a fare comprendere agli adolescenti che se diciamo di tornare a mezzanotte o all'una, che all'una e un minuto esatto la loro madre pensa che siano morti. Spostando, insomma, il tema sul piano dei sentimenti.
Allora perché non far capire a questo ragazzo quello che accade a casa di fronte al suo ritardo, non princìpi, ma emozioni, insistendo sul fatto di come si sente sua madre, e tante volte il padre, se non altro perché poi se lo passano, vivono in quel momento. Insomma, se si fa capire che da quell'ora sua madre sta veramente male, perché pensare a un proprio figlio morto è come vivere un lutto vero, incomincia la fantasia e se passa il tempo c'è tutta una serie di comportamenti che sono assolutamente assurdi se visti dall'esterno, ma non dall'interno dell'affettività, si riportano i figli dentro i sentimenti. Qui non ci sono discussioni da fare e anche ragazzi che qualche volta sembrano degli eroi, dei superman, dei violenti, appena li si guarda sotto la scorza sono pieni di paura, di quel senso di fragilità che ha bisogno di sentimenti. Ecco perché insisto nel richiamare il bisogno di capire dal punto di vista affettivo qual è questo mondo. Sia il mondo che è dell'adolescente, sia far capire qual è il mondo nostro.
Se noi ci presentiamo. come padri perfetti, freddi, gli adolescenti pensano che noi non abbiamo bisogno di niente. Invece se voi volete bene a quel figlio avete bisogno di lui.
Questi ragazzi hanno tante cose che noi non avevamo, è vero che sono pieni di oggetti, però sono più poveri nei sentimenti. E sono certamente ragazzi intelligenti. Chiedetelo agli insegnanti: vi diranno che non si applicano ma che sono intelligenti. Allora dov'è il punto debole? Nell'affettività. Non sanno gestire le emozioni, non sanno creare legami forti, stabili appunto, perché spesso non trovano l'altro e in un legame bisogna essere in due.
Di qui nasce questa necessità degli adulti di mettersi In gioco con i sentimenti, che è anche la maniera di poter conoscere poi questi figlioli. Altrimenti avranno la cosiddetta doppia vita o la vita su due binari, ossia una vita che racconteranno a casa e una vita che faranno fuori. Impareranno a dirvi le cose che sanno che in quel momento non creeranno problemi. Però sarà una specie di recitazione, e nel teatro si possono fare tante scene, ma gli affetti non si stabiliscono, così come non si stabiliscono affetti con internet. Si possono stimolare emozioni, cioè reazioni acute, ma il legame si costituisce più lentamente, e proprio perché ha questa modalità di genesi, ecco che ha una forza molto maggiore.
L'impegno affettivo coinvolge la persona proprio nella dimensione interna, quella più vera.
È facile con la retorica imbrogliare, dire quello che non si pensa. È più difficile con i sentimenti. Certo talvolta si riesce ma è più difficile e soprattutto non è possibile mantenere in falsetto i sentimenti a lungo. Un abbraccio dice molto di più di un discorso, perché è una commozione che impedisce di parlare. Una specie di servo meccanico, quasi a dire: «In questo momento stai comunicando così intensamente che non c'è bisogno di usare la parola».

Il silenzio: la parola del sentimento

Anche il silenzio è molto espressivo, il silenzio che è l'impossibilità di dire qualcosa in quel momento, così diverso dal mutismo, in cui si sta zitti per convenienza. Il silenzio è un blocco della parola, che però trasmette. Ed è bellissima quella frase: «Talvolta il silenzio urla».
Certo, c'è bisogno di aiutare anche i genitori, meglio i padri e le madri, e anche gli insegnanti e gli educatori di diversa estrazione, aiutarli a poter esprimere i sentimenti perché qualche volta ci sono dei blocchi.
Talora la famiglia diventa un luogo che non sembra adatto a questo perché c'è sempre una voce nel sottofondo, la voce del capofamiglia, il televisore che parla sempre e che rende impossibile cogliere le emozioni. Tutti guardano là dentro e come si fa a cogliere nel proprio figlio se c'è un'emozione, quando nell'Uzbekistan sta avvenendo qualche fatto di respiro internazionale?
La famiglia va aiutata e così come si è fatto nelle aziende, dove si è capito che la leadership si costruisce anche affettivamente, cosa impensabile qualche decennio fa, ossia facendo leva sui sentimenti, sul senso di appartenenza, di legame ad un luogo dove si passano molte ore di lavoro, allo stesso modo sarebbe utile adattare questo suggerimento alle comunità dove le famiglie si incontrano, alle scuole, alle strutture educative, perché avvenga il confronto, magari a piccoli gruppi, per insegnare agli educatori a diventare tali attraverso i sentimenti. Non è più possibile sostenere la funzione tecnica isolatamente.
Occorre allora che si amministri la comunità vista come un insieme di legami umani e promuovere di più le sezioni come quelle della cultura che qualche volta diventano le cenerentole dei bilanci, ma anche poter introdurre in ogni comunità dei momenti di insieme, per fare in modo che le comunità sappiano che cos'è la morte, vivano la morte del vicino di casa. Nei condomini ormai muore quello del piano di sotto e non importa niente a nessuno.
Insomma come un genitore non educa solo ai princìpi, allo stesso modo un insegnante non si può limitare a trasmettere i capitoli di storia e un amministratore a fissare le tasse alla collettività. Non basta darli. Bisogna darli in una relazione. Naturalmente anche gli insegnanti fanno fatica, come accade nella famiglia ai padri e alle madri, a tirare fuori i sentimenti. Ma è l'unica maniera perché divengano credibili, perché significa che accettano di mettersi in gioco e questo stimola nei ragazzi la disponibilità ad imparare anche tutte le tappe della campagna d'Italia di Napoleone.
La fragilità, quella degli insegnanti come quella dei genitori, è una forza, la fragilità serve. Nella mia esperienza come psichiatra, se ho aiutato qualcuno, la forza per averlo fatto è più nella mia fragilità, nel trasmettere all'altro la sensazione che tu hai voglia di aiutarlo a vivere e non importa se tu non sei un superman, anzi gli fai capire che anche tu hai avuto delle difficoltà. Il professor Danilo Cargnello, straordinario cittadino di questa città, sia pure dentro la memoria, sosteneva che per fare lo psichiatra bisogna prima essere uomini e poi psichiatri. Forse anche per gli insegnanti, essere uomini o donne prima di tutto. Non i titoli, le lauree, non solo almeno. Prima questo: sentire di essere un uomo, una donna.

La speranza

Quando parlo di affettività esprimo proprio la convinzione dedotta dall'esperienza, ossia che la comunicazione più forte nell'ambito del mondo adolescenziale avviene attraverso l'emotività, attraverso i sentimenti. E questo è un legame da privilegiare. Diamo sfogo ai sentimenti che invece qualche volta, ritenendoli cose minori, cerchiamo di controllare. Anzi mi piacciono quelle condizioni in cui l'espressione di un sentimento blocca addirittura l'espressione verbale, come il pianto, il silenzio.
Qualcuno può obiettare che l'affettività forse non basta. Ci sono tante altre cose di cui ho grandissimo rispetto. Per esempio servirebbe la speranza. Mai come in questo momento si può capire cos'è la disperazione.
Ognuno deve attivare quello in cui crede profondamente e per cui ha dato la vita. Non voglio mai presentare le cose come troppo elevate.
Credo nell'uomo, anche nell'uomo "rotto" che sta male, perché sono convinto che anche nella condizione dell'essere uomini sia insita una forza per poter essere educatori, per potere stare bene con i propri figli. Quella forza utile a far sì che un'età difficile come l'adolescenza possa essere meno triste, meno drammatica e che questa società possa contare meno adolescenti "rotti".
Basti pensare ad una scuola che qualche volta perde fino al 20% dei propri studenti. Un tasso terribile di dispersione scolastica, ragazzi che hanno il diritto, o l'obbligo di essere presenti e chissà dove sono.
Qui serve agevolare che la classe diventi un luogo che attira e talvolta lo è. Capita così che la morte di un amico di 17 anni li porti in classe e lì piangono. Vanno in classe, piangono in più. Quindi diventa un gruppo. Vivono coralmente un evento. Allora, perché la scuola non deve guardare di più al gruppo classe ed è invece magari molto più attenta ai singoli? È una domanda, non ho le ricette di ogni cosa. Svolgo il ruolo di chi spera di far nascere i problemi.
Ma certamente esiste una forza nell'insieme scolastico che andrebbe promossa. Aiutiamo le scuole in questo perché non si può ritenere responsabili dei comportamenti anomali o estremi solo gli insegnanti. Aiutate la scuola, perché nella scuola i ragazzi passano un tempo molto lungo e devono essere ore utili, non di frustrazione altrimenti si disamorano, e allora combattono, diventano ingestibili. E io che mi occupo della città della Terra voglio guardare a questo. Non alle altre cose, no, proprio a questo aspetto che è umano, umanissimo. I sentimenti.

Inventare le risposte dentro l'affetto

Il problema degli adolescenti e dei loro comportamenti spesso inaccettabili è globale. Non esiste nessuna nazione che l'Italia possa prendere come punto di riferimento, che non stia vivendo una situazione analoga con gli adolescenti.
In Francia come in Germania la problematica adolescenziale è molto seria. Questo accade perché c'è una adolescenza che risente proprio del momento storico, risente cioè del benessere, ma anche di una società che impone un incessante adeguamento: si devono sapere affrontare contemporaneamente persone, luoghi, relazioni differenti con complicazioni che sono difficili. La casa diventa spesso il luogo dove noi crediamo di poter allentare i freni inibitori e allora qui siamo più violenti e magari esprimiamo una violenza che portiamo da altre parti.
Insomma abbiamo di fronte un adolescente nuovo. Ed ecco perché noi dobbiamo essere in qualche modo nuovi per poter meglio comprendere quello che sta succedendo e non possiamo certo ripararci dietro al «ma quando eravamo adolescenti noi» perché era una condizione completamente diversa. Se ci sono padri e madri che hanno figli a distanza di 6 o 7 anni si accorgono che tra il primo figlio e il secondo esistono caratteristiche di una adolescenza diversa. Ecco ancora l'influenza del tempo.

(da: Notiziario Banca popolare di Sondrio)