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Appuntamento con l'ipocondria

Fonte: doveecomemicuro.it

22 agosto 2018 | Monica Torriani

Ipocondria: il male che non c’è

L’ipocondria è un disturbo psichico che si manifesta con una preoccupazione eccessiva per la propria salute, un timore esasperato ed intenso nei confronti delle malattie e della morte. Il paziente ipocondriaco interpreta in maniera sistematicamente alterata le informazioni provenienti dal corpo, nonostante le rassicurazioni ricevute dai medici e malgrado sia dotato dei requisiti intellettivi adeguati per poter comprendere le informazioni fornite dagli specialisti che consulta.

Il termine risale alla medicina ippocratica, che definì questa patologia come “il male degli ipocondri”, le porzioni dell’addome retrostanti le ultime coste e sottostanti la parte laterale del diaframma, sostanzialmente le aree occupate da fegato a destra e milza a sinistra.

Secondo Ippocrate l’ipocondria era un disturbo dello stomaco e della mente che causava disordini della digestione, alterazioni umorali e paura della morte. Gli antichi Greci credevano che nell’addome risiedesse il centro di controllo dei sentimenti e delle passioni: da qui il legame fra emotività ed attività digestive.

L’ipocondria riguarda una percentuale di persone compresa fra l’1,3 e il 10%, senza distinzione fra maschi e femmine: secondo dati riportati dal DSM IV (il manuale statistico medico dei disturbi psichiatrici) dal 3 all’8% dei pazienti che frequentano gli studi ambulatoriali soffrono di ipocondria.

Normalmente l’insorgenza della malattia avviene nel giovane adulto e permane fino alla mezza età.

Molière scriveva di ipocondria nel ‘600, ne “Il Malato Immaginario”: “Infermo e malato come sono, voglio procurarmi un genero e dei parenti medici, per avvalermi di buone difese contro la mia malattia, avere nella mia famiglia la fonte dei rimedi che mi sono necessari, anche per consulti e ricette”.

Sigmund Freud la descrisse come una polarizzazione dell’Io sull’organo erroneamente ritenuto malato, mentre il popolare filosofo Umberto Galimberti, nel suo “Dizionario di Psicologia” ne parla come di una preoccupazione immotivata per la salute. Forte e paradossale la relazione fra paura e desiderio di morte, colta dallo psichiatra Vittorino Andreoli, che definisce l’ipocondria il “male che non c’è”, la“voglia di malattia e se la malattia è un’espressione più accettabile e meno diretta della morte, si può concludere che esprime il desiderio di morte”.

Uno dei più noti ipocondriaci della nostra epoca, il regista ed attore Woody Allen, ha dato spazio a questa patologia in molte delle sue opere cinematografiche. Nel suo “Hollywood Ending”, il protagonista (interpretato dallo stesso Allen) si ammala di cecità isterica, disturbo che, anziché penalizzare le sue possibilità di successo professionale, le esalta. In occasione del lancio di “Hollywood Ending” l’artista newyorkese scrisse un pezzo per il New York Times, nel quale definì una sfumatura originale nonché molto personale dell’essere ipocondriaco: “Non sono un ipocondriaco, ma un genere di pazzoide completamente diverso. Sono un allarmista”.

Le manifestazioni dell’ipocondria

Le manifestazioni riconducibili all’ipocondria sono essenzialmente:

  • la preoccupazione, che perdura da almeno sei mesi, di avere o contrarre una malattia grave;
  • l’attenzione persistente e continua riguardo la propria salute, che si traduce in frequenti quanto clinicamente inutili controlli e consulti medici; in casi particolari di ipocondria, il paziente è, al contrario, ma per le stesse ragioni di fondo, spinto ad evitare i controlli, nel timore di ricevere una diagnosi infausta;
  • l’evitamento di tutte le circostanze che potrebbero nuocere al benessere, in generale, ed alle patologie su cui si concentra l’ossessione del paziente, in particolare.

Perché sia posta la diagnosi di ipocondria, è necessario che i sintomi riferiti dal paziente siano correlati ad una manifestazione fisica inesistente o di lieve entità: in caso contrario, non si tratterebbe di ipocondria, ma di preoccupazione eccessiva e sproporzionata di un dato reale (disturbo d’ansia da malattia).

La diagnosi differenziale deve essere posta anche nei confronti del disturbo d’ansia da sintomi somatici, caratterizzato da sintomi fisici reali e ben individuabili. Più nette le discrepanze con altre patologie della sfera psichica, come il disturbo da attacchi di panico e l’ansia generalizzata, le cui manifestazioni non sono necessariamente focalizzate intorno alla salute.

Il paziente sviluppa interesse specifico nei confronti delle malattie, se ne interessa, le studia. Tuttavia il suo non è un approccio scientifico, ma un tentativo di trovare conferma ai propri sospetti, al di là del valore delle fonti cui attinge e delle proprie reali competenze nell’interpretazione di ciò che legge. L’ipocondria spinge il paziente ad autoprescriversi esami ed accertamenti, terapie farmacologiche e di integrazione, nella convinzione che i medici abbiano sottovalutato la sua sintomatologia, che abbiano trascurato di analizzare tutti i dati clinici a loro riferiti e che dunque siano giunti a conclusioni diagnostiche superficiali.

L’ipocondria non è il timore, vago e indefinito, di soffrire di una patologia altrettanto ambigua, ma la convinzione, la certezza di avere una malattia precisa. A sfiancare il paziente, pertanto, non è solo la continua ricerca di conferme, ma anche la sensazione di essere l’unica persona ad avere compreso la situazione nella sua chiarezza e globalità. Il suo sforzo è quello di chi risale la corrente di un torrente di montagna, impetuoso e travolgente. La sua fatica è quella di chi è circondato da una moltitudine di parenti, amici, conoscenti, consulenti che gli remano contro, che tendono a vanificare il suo impegno.

Di fatto, ai fini degli standard di benessere dell’individuo, non fa differenza che la malattia sia immaginaria: se il paziente vive come se essa fosse reale, i limiti da essa imposti lo sono, così come le disabilità conseguenti. L’impatto sulla qualità della vita è molto simile a quello della patologia temuta.

“Del resto tra un’angoscia per un motivo grave ed obiettivo ed un’angoscia sine materia, le manifestazioni non sono differenti, anche se sul piano della causa possono apparire opposte: da un lato una causa appropriata, dall’altro completamente ingiustificata”, commenta il professor Andreoli nel suo libro “Le Nostre Paure”.

La classificazione dei casi di ipocondria

Si riconoscono tre tipologie di ipocondria:

  • Ipocondria classica: il paziente passa da un sintomo all’altro e da una malattia all’altra, ad esempio diverse tipologie di tumore o di malattie neurodegenerative
  • Patofobia: il terrore del paziente nei confronti delle malattie si sviluppa attorno ad un focus ben identificabile, ad esempio l’ossessione per le patologie cardiovascolari, che comporta la paura di essere vittime di ictus, infarto, embolia
  • Ossessione per alcuni sintomi e fastidi: porta alla somatizzazione in apparati specifici, ad esempio il digerente, attraverso manifestazioni effettive quali diarrea, dolori addominali persistenti, dispepsia (difficoltà nella digestione).

L’interpretazione dell’ipocondria

L’ipocondriaco si sente superiore (in quanto a capacità di percezione ed interpretazione dei segni clinici) rispetto agli specialisti da cui si fa visitare, anche quando riconosce loro speciali meriti professionali.

La salute diviene il baricentro della vita dell’ipocondriaco, che ne parla in continuazione con parenti e amici, con i quali intende condividere preoccupazioni ed ansie e dei quali non sopporta gli atteggiamenti di sdrammatizzazione.

Il paziente ritiene di essere una persona fragile per natura, bisognosa di rimanere concentrata su se stessa e sul proprio stato di benessere (o meglio, malessere) per evitare di incorrere in patologie tanto gravi da non avere possibilità di cura. L’ipocondria spinge il paziente ad estendere la propria fragilità alla sfera emotiva, all’apprensione continua ed esasperata anche verso la propria salute mentale, ritenuta bisognosa di interventi terapeutici continui.

Le più recenti teorie psicanalitiche interpretano l’ipocondria come un disturbo della sfera psichica che si è accentuato nelle ultime fasi storiche anche come effetto collaterale del progresso scientifico e della maturazione di conoscenze sempre più dettagliate sui meccanismi patogenetici. L’uomo è pervaso dal convincimento di poter controllare le malattie, conoscendole nei dettagli. Questa chiave di lettura è supportata dal fatto che l’incidenza dell’ipocondria è in continuo aumento e che la malattia tende a manifestarsi in forme sempre più invalidanti. Il fatto che il 15% dei disturbi fobico-ossessivi e ansiosi siano di tipo ipocondriaco, rende il fenomeno una vera e propria epidemia psicologica.

Il paradosso che si realizza nel momento in cui il paziente percepisce la sensazione del proprio tentativo di controllare ciò che non può, per definizione, essere controllato, rende l’attenzione per il corpo ed i suoi segnali disfunzionale. Questa seppure velata consapevolezza fa precipitare la situazione psichica dell’ipocondriaco, che supera il labile confine situato fra malessere e malattia. Mentre l’attenzione per le dinamiche dell’organismo e le conseguenti attività di prevenzione messe in atto rappresentano un valore aggiunto nel raggiungimento e nel mantenimento di un livello di benessere soddisfacente, l’ossessione per la salute e l’impegno sfiancante per l’attribuzione di significato clinico a segni che ne sono privi produce paradossalmente una riduzione degli standard di salute.

Ciò che apparentemente è più eclatante è l’alterazione dell’equilibrio psichico. Tuttavia, non è affatto trascurabile la correlazione fra lo stato di esasperazione e stanchezza per l’estenuante ricerca di risposte diagnostiche impossibili da rintracciare e la depressione delle risorse immunitarie. Spesso l’ipocondriaco, prostrato dall’ossessione e suggestionato dal fantasma della malattia, si ammala veramente.

Le cause dell’ipocondria

Notevoli appaiono essere i legami fra lo sviluppo dell’ipocondria e un’educazione familiare che predispone alla paura delle malattie. Nel rapporto del paziente ipocondriaco con i propri genitori, è quasi sempre possibile riscontrare una componente di apprensione eccessiva: tipico è il caso della mamma ansiosa che copre eccessivamente il proprio piccolo per scongiurare il rischio di raffreddore e influenza, che gli somministra antipiretici ai primi decimi di grado di alterazione della temperatura corporea, del papà che lo iperprotegge dalle comuni esperienze di vita, seppure commisurate alla sua età e al suo livello di maturazione.

Un fattore caratteristico e comune nei pazienti ipocondriaci è la sfiducia nelle proprie risorse, anch’essa verosimilmente derivante dalla mancata esperienza diretta: il bambino costretto a rinunciare a sperimentare il proprio corpo e le sue possibilità dalle restrizioni genitoriali o a causa di una malattia importante sopraggiunta nell’infanzia, tende a perdere fiducia in sé e a ritenersi vulnerabile.

Nei soggetti predisposti, anche il clamore mediatico per un caso clinico che coinvolge un paziente famoso, può determinare un atteggiamento ipocondriaco. Come confermato dai resoconti delle cronache, molti studi medici e centri ospedalieri sono stati letteralmente sommersi di appuntamenti richiesti da persone sane, in assenza di segni clinici rilevanti, suggestionate dal malore fatale occorso nel marzo scorso al calciatore della Fiorentina Davide Astori.

La diffusione di internet ed il suo utilizzo improprio non facilitano la gestione dell’ipocondria: il paziente che naviga in rete alla ricerca di una causa a cui ricondurre la propria costellazione di sintomi, intercetta con facilità miriadi di risposte (la maggior parte delle quali inesatte) ai dubbi che lo attanagliano. Il ricorso inconsapevole e indiscriminato a “dottor Google” è alla base della “cybercondria”.

La terapia dell’ipocondria

La terapia dell’ipocondria è integrata fra una dimensione farmacologica ed una psicoterapeutica.

Non esistono a tutt’oggi medicinali per la cura dell’ipocondria: la terapia farmacologica modifica i sintomi (purtroppo non le cause), supportando la psicoterapia. Il trattamento di maggiore successo è la psicoterapia cognitivo-comportamentale, sostituibile da un intervento psicoeducativo nei pazienti riluttanti a sottoporsi alla psicoterapia.

Quest’ultima si pone gli obiettivi di convincere il paziente:

  • che non è malato
  • che la sua fragilità è solo apparente e che può sopravvivere (e vivere) in maniera dignitosa anche facendo a meno delle attenzioni che erroneamente giudica indispensabili
  • che è in grado di occuparsi di se stesso ed interpretare correttamente i segnali del proprio corpo senza assurde suggestioni.

Paradossalmente, tutti i tentativi di rassicurazione messi in atto, a diversi livelli, da amici e parenti e dai medici consultati nel tentativo di dimostrare ad essi lo stato di malattia, raggiungono l’unico risultato di rafforzare la convinzione di malattia del paziente. La socializzazione delle preoccupazioni non rappresenta per l’ipocondriaco un supporto alla terapia, perché, di fatto, attribuisce maggiore valore ai suoi convincimenti errati. Rassicurazione chiama rassicurazione: il paziente che cerca (con successo) appoggi esterni, avverte solo nell’immediato una sensazione di sollievo. Successivamente, sarà infatti assalito da uno sconforto ancora maggiore, per il rafforzamento della convinzione di essere cagionevole.

Conseguentemente, la vera sfida della terapia psicanalitica dell’ipocondria si basa sull’interruzione di questa spirale viziosa, attraverso una presa di coscienza dei meccanismi mentali sottesi al disturbo. Al paziente viene spiegata la motivazione nascosta che scatena i suoi comportamenti, perché possa sviluppare una consapevolezza superiore riguardo ciò che succede realmente nel suo corpo. Il fine è quello di smascherare le pressioni inviate dalla mente, invitando il paziente a vederle per ciò che sono, ossia richieste di rassicurazione, e non come segnali di allerta del corpo nei confronti di manifestazioni ritenute pericolose per la salute.

In questo framework già complesso si inseriscono ulteriori fattori perturbativi, rappresentati dalle prescrizioni effettuate dai medici consultati dal paziente ipocondriaco, spinti dall’urgenza delle sue richieste. Una volta rilevati segnali che riconducono all’ipocondria, il ricorso alla psicoterapia è necessario anche ai fini di evitare che il continuo ricorso a procedure diagnostiche, controlli e consulti medici possa contribuire a comporre un quadro alterato della situazione, inducendo gli specialisti in errori diagnostici e/o prescrittivi. La terapia dell’ipocondria, dunque, si fonda anche sull’esclusione di farmaci non solo inutili ma talvolta persino deleteri, nella misura in cui mascherano la reale sintomatologia ed impediscono allo specialista di individuare la diagnosi corretta.

Uno dei punti su cui potrebbe essere conveniente lavorare per aumentare la percentuale di successo della terapia dell’ipocondria, è la comunicazione fra medico e paziente; il professionista in grado di colloquiare con la persona ipocondriaca nella maniera corretta, può contribuire all’inversione di tendenza del disturbo, prevenendo la sua transizione da semplice malessere a malattia conclamata. Il miglioramento della qualità del dialogo agisce anche indirettamente, attraverso la riduzione del rischio di comportamenti afferenti all’ambito della medicina difensiva (le prescrizioni che il medico effettua nel tentativo di tutelarsi contro eventuali azioni di responsabilità da parte del paziente) e di polarizzazione dell’interesse del paziente per l’utilizzo indiscriminato di internet e l’accesso privo di consapevolezza a fonti non verificate.

Consigli per chi vive accanto ad un ipocondriaco

La partecipazione alla terapia delle persone che intrattengono con il paziente ipocondriaco una relazione di tipo affettivo è di fondamentale importanza ai fini del successo della stessa. Ad avvalorare questo coinvolgimento, anche le continue richieste di rassicurazione perpetrate dai soggetti ipocondriaci nei confronti di amici e parenti.

Può essere, pertanto, conveniente seguire una strategia comportamentale orientata a scoraggiare i suoi comportamenti illogici. Può essere, a questo scopo, utile:

  • favorire l’assunzione di responsabilità del proprio congiunto nei confronti della gestione autonoma della propria salute, stimolando la formazione di una consapevolezza più matura e cosciente;
  • non assecondare le sue esigenze di porsi al centro dell’attenzione per i propri sintomi, di acquistare medicine per esso, di fissare appuntamenti con i medici, di comportarsi da infermieri o terapeuti e di consultare insieme a lui/lei fonti di informazione che possano rafforzare le sue convinzioni;
  • fingere di non sentire quando elenca i suoi sintomi, temporeggiare quando sollecita consigli;
  • spiegare al congiunto che compiacerlo nella ricerca di una diagnosi inesistente non sarebbe una dimostrazione di affetto, ma un danno, un potenziamento della sua fragilità; convincerlo/la di essere più forte di quanto lui/lei stesso/a creda, tanto da essere in grado di occuparsi da solo della propria salute;
  • spostare il focus della sua attenzione sui segnali positivi che il suo corpo gli invia, smontando quelli che lui interpreta come negativi.