Può la malattia rendere “cattivi”? Lo psichiatra Andreoli: mai dire ai pazienti “tra un po’ morirai”
Fomte: www.agensir.it
di Patrizia Caiffa
13 aprile 2018
Per la prima volta a Roma si è deciso di iniziare un percorso di studio per capire le implicazioni della "cattiveria", un'attitudine che a volte interferisce nel percorso di cura dei malati oncologici e nell’alleanza tra medico, paziente e famiglia. Alla tavola rotonda ha partecipato anche lo psichiatra Vittorino Andreoli. Ecco il suo punto di vista.
Può una malattia grave rendere le persone più “cattive”? E quanto la “cattiveria”, del paziente o dei familiari, può influire ed ostacolare i percorsi di cura? “Cattiveria” è un termine scomodo da usare. Per gli studiosi della psiche può non essere corretto perché implica un giudizio. Eppure nella pratica clinica di tutti i giorni medici e paramedici, soprattutto in oncologia, si trovano a doversi rapportare con questo tema ostico. Per la prima volta a Roma si è deciso di iniziare un percorso di studio per capirne le implicazioni.
“La cattiveria rappresenta un disturbo profondo che interferisce nell’alleanza tra medico, paziente e famiglia, elemento chiave nel percorso di cura. Le conseguenze inevitabili sono il distacco del personale sanitario nei confronti di queste persone”, ha spiegato l’oncologo Paolo Marchetti, primario all’ospedale Sant’Andrea di Roma, durante la tavola rotonda “Quando il male rende cattivi. La cattiveria, un ostacolo sconosciuto nei percorsi di cura” organizzata ieri (12 aprile) da Simep e Ne.T.On. La sfida è capire i perché dei comportamenti aggressivi: “A volte la cattiveria è dovuta a inadeguatezza dei medici nell’ascolto o all’incapacità dei familiari di dare un giusto sostegno al malato”, ha riconosciuto Marchetti. O anche a frasi che non dovrebbero essere più pronunciate: “Non c’è più niente da fare”; “Ha 6 mesi di vita”. Secondo Piergiorgio Donatelli, docente di filosofia all’Università La Sapienza, “la cattiveria ci riguarda tutti, ed ha a che fare con la difficoltà di accettare che siamo finiti, mortali”. Spesso “i contesti di cura mettono alla prova la nostra difficoltà di governare la cattiveria – ha osservato -, mentre la malattia richiede l’accettazione grata della nostra finitezza”. All’incontro è intervenuto anche lo psichiatra Vittorino Andreoli, che ha invitato i medici “a parlare sempre di vita e riconsiderare la morte come un mistero”, per evitare che nelle persone scattino meccanismi distruttivi. Lo abbiamo intervistato.