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Parla lo psichiatra Vittorino Andreoli: «I social network portano alla morte della personalità. Scegliamo il ‘bendessere’…»

Fonte: www.sanitainformazione.it

3 maggio 2018 | Giovanni Cedrone

Il professore sottolinea: «Negli smartphone c’è il narcisismo. Ma è fondamentale trovare gratificazioni nel mondo reale». Poi spiega la crisi della psicanalisi: «Questa è la società del tempo reale che non accetta di andare per cinque volte alla settimana da uno psicoanalista per dieci anni»

«L’uomo deve avere il coraggio di non dire mai ‘non c’è niente da fare’, soprattutto di fronte alle condizioni del mondo presente e dei giovani. C’è sempre da fare». Il messaggio di Vittorino Andreoli, già Direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona – Soave e membro della New York Academy of Sciences, è quello della speranza. Nel suo ultimo libro, Essere e destino (Marsilio editori), lancia una nuova disciplina, quella del ‘bendessere’, una disciplina scientifica volta a promuove il bene migliorando l’uomo nelle sue tre componenti: mente, corpo e relazioni sociali. Se si migliora una delle tre, si migliorano anche le altre. E, sottolinea lo psichiatra, non è vero che il destino di ognuno di noi è già scritto. «Ci sono tre tipi di morte – spiega Andreoli a Sanità Informazione – la morte fisica che cancella il corpo; la morte psicologica, cioè si può uccidere una personalità, distruggerla, ferirla senza toccare il corpo. C’è poi una morte sociale, quella che rovina il ruolo di una persona». Ed è su quest’ultima che il noto psichiatra si concentra: gli smartphone, la rete e i social sono i ‘killer’ della morte sociale. Andreoli ragiona anche sul rapporto medico–paziente sempre più in crisi: «Spesso i medici sono dei giudici, ecco perché io dico sempre che non giudico. Ma spesso manca la fiducia in noi».

ANDREOLI: «NON BASTA TOGLIERE IL MALE, BISOGNA PROMUOVERE IL BENE»


Professore, il suo ultimo libro si chiama “Essere e destino”. In questo libro parla di un nuovo metodo per migliorare la vita che si chiama ‘bendessere’. In cosa consiste?

«Negli ultimi anni assisto sempre più frequentemente a persone che vengono da me non tanto per parlarmi della malattia di cui soffrono, o per vedere se c’è la ricaduta (è fasica spesso la follia), ma mi dicono: professore, mi aiuti a vivere un po’ meglio, a poter parlare meglio con i miei figli, ad avere un po’ di serenità in casa. Sempre di più vedo che c’è un desiderio forte di poter fare qualcosa perché l’esistenza sia migliore. Allora mi sono convinto che ci sono due binari: il primo è quello della clinica. Sa, io faccio il clinico da molti anni. Il clinico è colui che deve, partendo dai sintomi, capire che cosa non funziona. I sintomi riportano sempre ad un organo: al fegato, al cuore, alla vescica, alla mente. Quindi bisogna occuparsi di quell’organo per togliere la malattia, che deriva da ‘male’, bisogna quindi ‘tirare fuori il male’. Allora bisogna che ci sia una disciplina, anche questa scientifica, per promuovere il bene. La clinica è importantissima ma è importante anche aiutare perché si possa vivere il meglio possibile. Se uno vuol volare non può, è già successo a Icaro. Però c’è una vita possibile e allora io dico che è sempre possibile promuovere un po’ di bene anche laddove c’è malattia. È una visione, è un cercar di dare spazio e di realizzare i desideri. Questo è il ‘bendessere’. Da qui passiamo al destino. Lei sa che il destino è stato uno dei grandi temi della letteratura. In Camus la peste era il destino. Come fai ad esistere se c’è un destino in cui è già scritto quello che tu farai? Questo è il tema. Io sostengo che è possibile opporsi al destino, a questo destino che è la malattia cronica, che è la follia, che sono anche le malattie oncologiche, a tutte quelle condizioni in cui la medicina ormai ha rinunciato e su cui non c’è niente da fare. No, c’è sempre qualcosa da fare ed è quello di proporre e promuovere il bene. Qualche volta è promuovere una diversa situazione fisica, somatica, un’altra volta è mentale, un’altra volta è nell’ambiente, le relazioni. Oggi noi sappiamo che mente, corpo e relazioni sociali mostrano una circolarità. Se io miglioro la condizione del corpo sicuramente questo si riflette sulla mente. La mente permette le relazioni sociali. Quindi oggi abbiamo degli elementi proprio per poter dire di no al destino. Certo la morte c’è ma questo è il destino di tutti. C’è un libro fondamentale per me e per tutti quelli che hanno fatto il mio mestiere: è Essere e tempo di Heidegger. Ho sentito il bisogno di riprendere questo filone che è quello della fenomenologia con Essere e destino proprio perché l’uomo deve avere il coraggio di non dire mai ‘non c’è niente da fare’ soprattutto di fronte alle condizioni del mondo presente e dei giovani. C’è sempre da fare».

Lei recentemente ha detto ‘i social stanno rovinando le relazioni e le persone’ e che Facebook andrebbe chiuso. Noi ci siamo occupati di una patologia nuova, la nomofobia, la paura di rimanere senza connessione. Come possiamo affrontare questi problemi?

«Io sono stato molto duro perché su questi temi o si è decisi oppure si ‘parlicchia’. Esistono tre morti: la morte fisica che cancella il corpo, la morte psicologica, cioè si può uccidere una personalità, distruggerla, ferirla senza toccare il corpo. C’è poi una morte sociale, quella che rovina il ruolo di una persona. Si vive anche con lo smartphone, però la personalità ha bisogno di relazioni, ha bisogno che lei veda me, nella mia espressione, nella mia passione. Altrimenti che cosa fa un apparecchio? Ci chiude in una vita digitale. Quindi io difendo la vita umana e chi scappa là dentro e non vede più il mondo concreto fa una rinuncia e quindi si sposta lì dentro l’incapacità di vivere in questo mondo. Ecco perché ho detto: sono dei frustrati. Nel senso che credo che questi frustrati devono trovare gratificazioni nel mondo reale, nel rapporto con me, nel rapporto con lei, non scappando da questo mondo e andando in quello virtuale».

ANDREOLI E GLI SMARTPHONE: «CI CHIUDONO IN UNA VITA DIGITALE. MA LA PERSONALITA’ HA BISOGNO DI RELAZIONE»

Lei è un grande psichiatra, ha una esperienza di 60 anni. Pensa che oggi ci sia ancora difficoltà ad ammettere questo tipo di malattia e a prendere i farmaci?

«Sì perché c’è una storia lunghissima, secolare nella nostra cultura in cui la follia è l’immagine della morte. La follia è una morte della personalità, chi non ha il rapporto di realtà, non ragiona. Ed è esattamente quello che avviene poi sui social network. Tutto è yes or not. Quindi, in fondo, la metafora dei social network è effettivamente la metafora della morte della personalità. Per esempio sta scomparendo lentamente la libido che era ottica dell’eros, una cosa importantissima. Perché ormai tutto è riportato agli occhi, non c’è più l’attrazione, il bisogno di corteggiare, l’attesa. La mia non è una condanna campata in aria, io dico che quella è una morte perché la vita concreta è meglio mentre invece ormai nessuno parla più con la propria madre, con nessuno. Anche oggi in treno, venendo da Verona, ho visto queste persone durante il viaggio, una di fronte all’altra, mute. Se dicono qualcosa è per parlare di quello che c’è sul telefonino. Una volta si parlava e si stava anche in silenzio. Il silenzio è pieno di cose perché attiva la fantasia, mentre ora si è sempre connessi e se si chiude il telefonino c’è il vuoto».

Come saprà, stanno aumentando tantissimo le violenze sui medici. Forse non siamo più in grado di affrontare la malattia?

«Innanzitutto noi abbiamo scotomizzato la morte. Non vogliamo parlarne. La morte è vista come una malattia. Quando si va dal medico si vuole subito la risposta, subito il miracolo. Quindi si pensa subito che possa sbagliare, non c’è più fiducia nel medico. È importantissima la fiducia. Io qualche volta parlo con voi giornalisti, qualche volta anche in televisione quando non c’è da discutere. Ogni volta che mi metto a parlare, anche oggi, dico sempre: cosa diranno i miei pazienti di questa intervista? Io c’ho tante persone che sono attaccate a me, non so perché. Esistiamo io e loro, io per loro, loro per me. Ho la consapevolezza che devo dire cose che non tocchino questa relazione. Là c’è la vita, nello smartphone c’è il narcisismo. È un po’ il rapporto medico-paziente che è in crisi. L’oncologo sta con un ammalato 8-9 minuti. Le pare una cosa possibile? Occupiamoci di quelli che ammazzano ma occupiamoci di vedere se c’era una relazione, un sentimento, un sentire comune. Spesso i medici sono dei giudici, ecco perché ho detto che non giudico».

Lei ha detto di non credere nella psicanalisi. In generale la psicologia è un po’ in crisi…

«In America non va più nessuno dallo psicanalista».

Perché è in crisi la psicoanalisi. C’è qualcosa che non ha funzionato?

«Perché questa è la società del tempo reale e non accetta di andare per cinque volte alla settimana da uno psicoanalista per dieci anni. Si è cominciato a parlare di psicoanalisi breve, di psicoterapia breve».