Ai muri lo psichiatra preferisce i muretti
Fonte: repubblica.it
05 novembre 2023 | Simone Mosca
Vittorino Andreoli ne ha fotografati centinaia, ricavandone ora un libro piuttosto curioso: «Non sono una mia ossessione ma il passaggio freudiano dall’Io al Noi. E non solo». intervista.
Psichiatra e neurofarmacologo di fama con un grande talento per la divulgazione e un’acconciatura entrata nella storia della tv; per una vita esploratore degli angoli bui della coscienza e della massa grigia in cui si annidano le molte diversità a lungo liquidate come follia, e che anche grazie al suo contributo hanno oggi spiegazioni e definizioni scientifiche.
Alla fine si scopre che però, insomma, nemmeno lui è immune da qualche feticismo, da qualche ossessione. In particolare una, apparentemente anche di una certa stravaganza: i muretti a secco. «Non è un’ossessione, parliamo di tracce maestose di una civiltà perduta, rappresentano il noi di una volta» tenta di rassicurarci il professor Vittorino Andreoli. Che, nato a Verona nel ‘40, a 83 anni ha deciso di raccogliere alcune delle centinaia di foto con le quali ha immortalato per quasi vent’anni ancestrali cumuli di pietre a uso agricolo in Muretti a secco. La semplicità perduta.
Un libro che arriva dopo avere firmato tante pubblicazioni scientifiche, saggi divulgativi (sulla genitorialità, sull’adolescenza, la religiosità, la scuola, le dipendenze...), attraverso il quale, con poche parole e parecchie immagini, Andreoli ripercorre la storia di quelli che gli inglesi chiamano dry stone walls. Ricordandone (forse) il senso alla luce del mondo contemporaneo in cui ai muretti si preferiscono di gran lunga mura impenetrabili.
Questo libro è, tra l’altro, il primo titolo di Low, casa editrice piacentina nata dalle Officine Gutenberg, coop sociale che ormai dal 2008 accompagna l’inserimento di persone fragili o affette da disabilità nel mondo della comunicazione e della cultura. «E ci tengo ovviamente a dire» precisa Andreoli all’inizio di questa intervista, «che ho regalato il lavoro, ci mancherebbe, proprio perché i muretti sono i segni lasciati da un’umanità che non conosceva il profitto».
Professore, andiamo con ordine. Per cominciare, nessuno sapeva lei avesse la passione per la fotografia.
«È vero, è diciamo un passatempo che ho tenuto sempre nascosto. Iniziai alla fine degli anni Sessanta, quando per uno studio commissionato dalle Nazioni Unite in Africa dovetti documentare il fenomeno della migrazione dalle campagne, dai villaggi interni, verso le città che allora si ingrandivano. Iniziai dalla Costa D’Avorio, finii in Mali, e per spiegare il dramma delle decine di ragazzi e ragazze appena fuggiti dai campi che rubavano o si prostituivano per una radio, un paio d’occhiali, per una dose di droga, la penna non bastava. Da allora ho avuto solo Leica, le compro nello stesso negozio di Verona; avessi avuto interessi diversi, con gli stessi soldi mi ci sarei comprato alla fine una Ferrari. Però sono così, e l’Africa è il museo dell’uomo».
Pare che oltre ai muretti le sia capitato di innamorarsi di altri soggetti ricorrenti.
«Certo. Le cortecce degli alberi, almeno un decennio. E poi i fiori, migliaia. Anche i cani, sì, i cani. Bellissimi, in giro, a spasso, magari con i loro padroni».
I muretti però devono essere speciali, se ha pensato di farci addirittura un libro.
«Con mia moglie in vacanza abbiamo sempre cercato la solitudine. Una condizione che per molte estati ci è stata offerta dalla Scozia settentrionale. Paesaggi sperduti, natura desolata di gente, più pecore che cristiani. Ed è lì che ho iniziato a cogliere la minuta magnificenza delle pietre appoggiate ad arte le une sulle altre, lentamente, per descrivere perimetri trasparenti. Un’arte primordiale, intatta dalla civiltà mesopotamica, che descrive ma non impedisce e che, come sappiamo, è anche pugliese, sarda, universale. Si parla poi tanto di dissesto idrogeologico: ecco, per dire i muretti a secco sono permeabili, l’acqua ci scorre attraverso. L’arte dei muretti a secco, da cui sarebbero discesi pure gli scalpellini e la maestria di Michelangelo, non a caso dal 2018 è Patrimonio dell’umanità. Come vede non è affatto soltanto una mia ossessione».
Muri e muretti offrono metafore in quantità.
«Personalmente ne colgo soprattutto una. E cioè questa: i muretti sono un insieme di sassi che trovano un senso liberandosi dalla solitudine che vivrebbero immoti a terra. In queste costruzioni io vedo il passaggio freudiano dall’Io al Noi. Ogni asperità peculiare di ciascun sasso è rispettata all’interno del tessuto che formerà il muro. I muretti, in estrema sintesi, sono come la società».
Un muretto alla volta, non è forse così che è nata la proprietà privata? E che è nato il conflitto?
«No, si sbaglia, i muretti restano vestigia di una visione contadina dove eternamente ci si deve cavare da vivere. Parliamo di un tempo in cui non c’è ancora l’idea dell’accumulo, ed è lontanissima la cultura delle fortezze dal paziente e riflessivo delimitare, attraverso pietre una sopra l’altra tre mucche e quattro ulivi».
Quindi i muretti non sono antenati delle mura, né dei muri.
«Le mura appartengono a una civiltà successiva, che è la civiltà della guerra, della ricchezza come fine supremo e non come mezzo per la sopravvivenza. Sono un dispositivo militare e minaccioso che evidentemente caratterizza sin dalla fondazione città e imperi. È la Grande muraglia cinese, sono le mura medievali nostrane. Le mura, e i muri, sono utili all’eliminazione e all’esclusione degli altri».
Nel 2023, tuttavia, possiamo dire che stia vincendo la civiltà della guerra, come l’ha chiamata lei. O no?
«Guardi, io preferisco sognare fotografando muretti, mi lasci farlo. Se poi vuole proprio saperlo, il problema è che abbiamo introiettato a un certo punto l’idea che per vivere si debba lottare. È un’idea darwiniana, è ciò su cui si basa l’evoluzionismo. Che non nego, e contro il quale non ho niente, per carità. Ma che, per quello che riguarda l’umanità, la nostra essenza, non vale. Noi tramandiamo cultura, non soltanto geni, e in due generazioni ora rischiamo di perdere tutto. Mi telefonano ancora decine di madri. “Mio figlio è timido, troppo buono, che cosa devo fare?”. Niente deve fare, ci sono gli esuberanti e gli introspettivi, e allora? Si comincia a dire che anche Sigmund Freud sbagliava, che non è vero che i figli devono uccidere il padre. Engels, Marx, rivoluzione armata? Non so come si possa cambiare il mondo, ma se ci immaginassimo soltanto come sassi in attesa di fare muretto, forse non sarebbe poi così male».