“Il lato oscuro” di Vittorino Andreoli: un grande psichiatra racconta nove storie italiane di crimine e follia
Fonte: oubliettemagazine.com
2 giugno 2022 | Miriam Ballerini
Ho letto molti libri di Vittorino Andreoli, famoso psichiatra; ritengo sia una persona estremamente empatica e umana; trovo, inoltre, che sappia scrivere in modo da riuscire a fare avvicinare a queste tematiche anche persone comuni che non posseggano nozioni della materia.
Da sempre interessata a queste situazioni, a scavare nell’animo umano, soprattutto quello che riguarda la psiche malata o deviata, ho affrontato anche questo libro con estrema attenzione.
Le nove storie che riporta riguardano casi da lui seguiti personalmente; questo significa che è stato interpellato come perito per dare un giudizio psichiatrico sul colpevole.
Come funziona questo lavoro?
Ce lo spiega lui stesso: ne “Il lato oscuro“: “Il lavoro psichiatrico, sia esso svolto per conto della difesa o per conto dell’accusa, non è mai teso ad appurare la colpevolezza o l’innocenza del soggetto in analisi. Anche quando il soggetto mente, è il fatto che menta, le modalità con cui costruisce e propone la menzogna ad assumere rilievo …”
I due casi ai quali ha dato maggiore spazio sono quelli dei serial killer Donato Bilancia e il mostro di Firenze (presunto?), Pietro Pacciani.
Del primo ne ha riportato molte lettere, narrandone la storia al completo, portandoci a conoscenza della “voce” di Bilancia, del suo sentire.
Il secondo, nonostante non lo abbia mai incontrato, lo ha seguito perché incaricato di studiarne i disegni e gli scritti, affinché giungere alla conclusione se questi potessero o meno appartenere a un individuo capace di atti feroci quali il mostro di Firenze aveva perpetrato.
Gli altri sette casi riguardano crimini meno conosciuti, a chi non segue particolarmente la cronaca.
Marisa Pasini ha ucciso il proprio bambino di tre anni, affogandolo.
Donato Bilancia ha ucciso, in soli sei mesi, diciassette persone, spargendo il panico per la Liguria.
Paolo Pasimeni, a Padova, uccide il padre all’interno dell’università in cui lavora.
Eugenio Michelotto uccide il padre e ferisce la matrigna.
Michele Profeta sta intraprendendo la strada del serial killer, ma viene fermato alla conta di due cadaveri.
Riccardo, minorenne, uccide la propria fidanzatina.
Franca Maria Bauso, con l’aiuto della mamma, del fratello e di un’amica, uccide il proprio padre, un uomo violento.
Mariano Molon, durante una riunione di lavoro uccide un collega e ne ferisce gravemente altri due.
Pietro Pacciani, accusato d’essere il mostro di Firenze, viene giudicato colpevole in primo grado e assolto in secondo grado. Morirà d’infarto quando ancora la questione non sarà chiarita. E, pure a tutt’oggi, non possiamo dire di essere certi di come siano andate le cose. Intanto hanno perso la vita sedici giovani.
All’inizio del libro Andreoli ci spiega a grandi linee cosa significhi, per un essere umano, uccidere. Perché lo fa, quali molle scattino nel nostro cervello.
Le storie narrate sono suddivise in tre parti: il fatto, la personalità di chi ha ucciso e la dinamica del delitto.
Dice Andreoli: “Lo scopo di questo libro è aiutare a comprendere l’ammazzare, non parlare delle regole del giudizio e della punizione. Noi del resto abbiamo sempre lavorato per capire e siamo incapaci di giudicare, mentre rispettiamo coloro che lo fanno. Una società ha bisogno di leggi, anche se le leggi dovrebbero aver bisogno di conoscere bene l’uomo che le deve applicare”.
Da sempre l’essere umano è attratto dalle vicende di sangue, anche se ne prende subito le distanze, cercando di segnare la linea di confine fra sé e l’altro. Spesso le persone non si rendono conto che, chiunque di noi, è in grado di uccidere.
A ognuno di noi può capitare qualche evento che scateni questo fenomeno che non ci è per niente estraneo.
Trovo esemplificativa questa frase scritta dallo psichiatra: “Il mostro è la creazione, comoda e rassicurante, di una società che non si sente più umana, che vuole ribadire ipocritamente la propria normalità escludendo come “non umano” quanto in realtà non è altro che un suo prodotto. Ogni omicidio, infatti, parla della società in cui è stato commesso, in qualche modo la riflette. Per questo, giudicando, non facciamo altro che giudicare noi stessi”.